di Mohammed R. Mhawish, Ola al Asie Ibrahim Mohammad   –  +972mag

(traduzione di Federica Riccardi – foto fermo immagine da Youtube)

Pagine Esteri, 30 ottobre 2024 – Da oltre due settimane, l’esercito israeliano sta conducendo una delle campagne più brutali e distruttive della guerra nel nord di Gaza. I residenti di Jabalia, Beit Lahiya e Beit Hanoun vivono in un assedio implacabile che li ha privati di cibo, acqua e di qualsiasi illusione di sicurezza. I sopravvissuti descrivono un incubo al di là di ogni comprensione: attacchi aerei e bombardamenti così incessanti che i loro corpi non smettono mai di tremare.

L’operazione militare israeliana, iniziata nelle prime ore del 6 ottobre, ha finora ucciso almeno 640 palestinesi. Molti nelle aree assediate hanno descritto scene apocalittiche di cadaveri sparsi per le strade, con le squadre mediche incapaci di recuperarli a causa dei continui bombardamenti.

Negli ultimi giorni, l’esercito israeliano ha rilasciato video che mostrano soldati che radunano i palestinesi che si erano rifugiati nei campi per sfollati e li costringono a dirigersi a sud verso Gaza City. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) ha stimato che 20.000 persone sono state sfollate con la forza da Jabalia solo il 18 ottobre. Le immagini pubblicate sui social media dai soldati israeliani suggeriscono anche che l’esercito ha dato fuoco ai rifugi per impedire ai palestinesi di tornare.

Oggi sono emersi video che mostrano decine di uomini palestinesi a Jabalia che vengono fatti marciare dall’esercito israeliano sotto la minaccia delle armi, mentre sono bendati e ammanettati; probabilmente da allora sono stati portati in centri di detenzione all’interno di Israele, dove ex detenuti e informatori hanno denunciato abusi e torture dilaganti.

L’assalto al nord di Gaza ha limitato gravemente il funzionamento degli ospedali nelle aree assediate. Il dottor Mohammed Salha, direttore dell’ospedale Al-Awda di Jabalia, ha dichiarato a +972 Magazine che la situazione nella struttura è “catastrofica”. Circa 180 persone – tra personale medico, pazienti e famiglie sfollate – sono intrappolate all’interno dell’ospedale, mentre l’esercito israeliano bombarda l’area circostante. “Stiamo solo aspettando che arrivi la morte”, ha detto. “O un miracolo”.

“Non abbiamo più nulla per curare i feriti e i pazienti”, ha continuato Salha. “Anche i beni di prima necessità, come acqua e medicine, scarseggiano e il generatore dell’ospedale sta consumando le ultime gocce di carburante. Se il generatore si ferma, si fermeranno anche le vite di coloro che dipendono dai ventilatori”.

Il dottor Marwan Al-Sultan, direttore dell’ospedale indonesiano nella vicina Beit Lahiya, ha descritto una scena altrettanto devastante. “I carri armati israeliani stanno circondando l’ospedale da tutte le direzioni e diversi veicoli sono fermi ai cancelli”, ha detto. Il 19 ottobre, il Ministero della Sanità di Gaza ha riferito che le forze israeliane avevano bombardato i piani superiori dell’ospedale, nonostante la presenza di oltre 40 pazienti e personale medico. Due giorni dopo, le truppe hanno dato fuoco a una scuola vicina, innescando un incendio che ha raggiunto i generatori dell’ospedale e ha interrotto l’energia elettrica, rendendo l’ospedale in gran parte non funzionante.

Nonostante l’esercito israeliano abbia chiesto l’evacuazione dell’ospedale, Al-Sultan ha affermato che lui e i suoi colleghi si rifiutano di andarsene. “Ci sono 45 persone intrappolate all’interno dell’ospedale: 15 membri del personale e 30 pazienti”, ha spiegato. “Un paziente è morto a causa dell’interruzione di corrente e della mancanza di materiale medico. L’elettricità è stata completamente tagliata e le forze di occupazione rifiutano di far funzionare i generatori. Questo mette a rischio la vita dei pazienti, soprattutto di quelli più vulnerabili”.

Tutto ciò che è rimasto è la volontà di respirare

Nabil Al-Khatib, 57 anni, e la sua famiglia si erano rifugiati in una scuola dell’UNRWA a Beit Lahiya quando Israele ha iniziato a bombardare la zona il 6 ottobre. “Pensavamo che la scuola fosse sicura”, ha raccontato. Ma all’improvviso si sono trovati sotto un pesante bombardamento. Le schegge sono volate verso di loro, ferendo leggermente otto tra figli e nipoti di Al-Khatib.

“Pensavamo di non farcela”, ha raccontato Al-Khatib, con la voce incrinata. “L’aria era densa di fumo. La mia bambina più piccola era così spaventata che non mi lasciava andare. L’ho tenuta stretta, dicendole che presto sarebbe finita, anche se non ero sicuro che fosse vero. È stata la notte più lunga della nostra vita”.

La mattina non ha portato pace, ma solo una breve tregua negli attachi. La famiglia ha approfittato di una pausa di 15 minuti nei bombardamenti per fuggire. “Abbiamo preso i bambini, afferrato tutto quello che potevamo e siamo scappati”, ha raccontato Al-Khatib. “Abbiamo lasciato tutto dietro di noi: le nostre medicine, le nostre vite come le conoscevamo. Ma eravamo insieme. Era l’unica cosa che contava”. La via di fuga è stata chiusa poco dopo, lasciando molti intrappolati.

La famiglia è riuscita a trovare rifugio in una piccola aula della scuola Abu Zaitoun, vicino al campo profughi di Al-Shati, a sud di Jabalia. “Ora siamo a Gaza City, ma non ci sono soccorsi”, ha detto Al-Khatib. “Vedo persone che hanno già perso tutto: le loro case, le loro famiglie, i loro arti. Tutto ciò che rimane è la volontà di respirare, di rimanere in vita fino alla prossima esplosione”.

Bilal Salem, un fotoreporter che sta documentando il rapido deterioramento della situazione nel nord di Gaza, ha dichiarato a +972 che ogni minuto sembra l’ultimo. “Si sente il drone, o il fischio di un missile, e poi tutto diventa polvere”, ha detto. “Ci muoviamo tra le rovine come fantasmi, cercando di catturare ciò che resta della vita delle persone, ma la verità è che non è rimasto molto”.

La sua voce si è spezzata quando ha parlato dei bambini: il modo in cui si aggrappano ai loro genitori, alla disperata ricerca di una protezione che i genitori non possono dare. “Mi sono occupato di Gaza per tutta la vita, ma questa non è una guerra, è un genocidio. È come se la morte fosse in agguato dietro ogni angolo”.

Salem ha anche parlato del peso personale del suo lavoro: “È difficile andare avanti quando si assiste a questo tipo di distruzione”, ha spiegato. “Vedo corpi schiacciati sotto le macerie, bambini senza arti, persone che sanguinano per strada perché non c’è nessuno che possa aiutarli. È come vivere all’inferno, e la situazione peggiora di giorno in giorno”.

Nonostante i rischi quotidiani per la sua vita, Salem continua a fare il suo lavoro. “I giornalisti sono un bersaglio”, ha detto chiaramente. “Siamo visti come nemici perché mostriamo al mondo cosa sta realmente accadendo. Ho perso il conto di quanti amici ho perso facendo questo lavoro e ogni volta che esco mi chiedo se ce la farò a tornare”.

Oggi, l’esercito israeliano ha affermato che sei giornalisti di Al Jazeera, che stanno coprendo l’attuale assalto al nord di Gaza, sono agenti di Hamas e della Jihad islamica. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha osservato che “Israele ha ripetutamente fatto affermazioni simili senza produrre prove credibili”, e la mossa ha sollevato il timore che l’esercito possa cercare di prendere di mira questi giornalisti per limitare ulteriormente la copertura della campagna militare.

Nessuno ha fatto nulla per salvarli

Neveen Al-Dawasa, infermiera, è rimasta intrappolata nella scuola Al-Fawqa di Jabalia, nel nord di Gaza, per 16 giorni. “Non avevamo nulla, né cibo né acqua”, ha detto a +972. “La gente entrava nella struttura solo per sopravvivere e quando lo faceva, l’esercito israeliano bombardava i cancelli. Hanno persino bombardato il pozzo dell’acqua mentre i bambini riempivano le brocche. Non c’è più umanità”.

Il 21 ottobre, Israele ha bombardato la scuola. “È stato un inferno”, ha detto Al-Dawasa senza mezzi termini, con la voce che tradiva una profonda rabbia. “Ci hanno dato un’ora di tempo per evacuare, ma ci hanno bombardato prima dello scadere del tempo. Non gliene importava nulla”. “Ho visto io stessa i corpi”, ha continuato. “Ricordo di aver visto circa 30 feriti e 10 morti. Abbiamo chiamato le ambulanze, ma non riuscivano a raggiungerci”.

Dopo il bombardamento, l’esercito israeliano ha usato droni e carri armati per costringere i sopravvissuti a fuggire sotto la minaccia di morte. “Ci hanno detto che c’era un ‘passaggio sicuro’, ma quando abbiamo cercato di andarcene, ci hanno gridato dai loro carri armati: ‘Tornate indietro, o vi spariamo!”. Con la voce vacillante, Al-Dawasa ha concluso. “Ci hanno trattato come animali. Anche peggio”. Al-Dawasa è riuscita a fuggire dal campo di Jabalia il 22 ottobre e a rifugiarsi all’ospedale Al-Ahli di Gaza City.

Mosab Abu Toha, un poeta palestinese di Jabalia che ora vive in esilio, ha utilizzato i social media per cercare di portare l’attenzione del mondo su ciò che sta accadendo a coloro che sono intrappolati nel nord di Gaza, compresa la sua famiglia. “La casa di mia zia e la famiglia di suo marito sono ora assediate da carri armati e soldati”, ha scritto il 17 ottobre. “I soldati israeliani stanno sparando al piano terra. Lei ha 5 figli e nell’edificio ci sono più di 30 persone, soprattutto bambini”.

Il giorno dopo, ha pubblicato un aggiornamento: “Scrivo con il cuore pesante che mia cugina Sama, 7 anni, è stata uccisa nell’attacco aereo sulla sua casa insieme a 18 membri della sua famiglia, che è la mia famiglia allargata”. Ha aggiunto: “Ho scritto di questo ieri, prima che la casa fosse bombardata. Ho detto a tutti che carri armati e soldati stavano assediando la zona. Ma nessuno ha sentito. Nessuno ha fatto nulla per salvarli”.

In una dichiarazione, il portavoce dell’IDF ha affermato che l’esercito sta “permettendo ai civili di evacuare per la loro incolumità in modo sicuro e attraverso percorsi organizzati” e che è “in costante contatto con la comunità internazionale e il sistema sanitario per mantenere il funzionamento dei sistemi di emergenza degli ospedali attraverso il trasferimento di attrezzature mediche e la fornitura di carburante”. Il portavoce ha affermato di non essere a conoscenza del fatto che l’esercito abbia preso di mira i civili mentre fuggivano lungo il percorso umanitario da Jabalia a Gaza City, e non ha risposto alla nostra richiesta di informazioni sull’attacco alla scuola di Al-Fawqa. Pagine Esteri

Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese di Gaza, che attualmente vive in esilio.

Ola Al Asi è una giornalista freelance palestinese, scrittrice, narratrice e docente di lingua inglese, residente a Gaza.

Ibrahim Mohammad è un giornalista palestinese indipendente di Gaza City che si occupa di questioni umanitarie e sociali.

 

 






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