di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 5 dicembre 2024 – Che cosa sono – I crediti di carbonio sono titoli di compensazione delle emissioni inquinanti che le aziende possono acquistare per investire in progetti che riducano o assorbano la CO2 rilasciata nell’atmosfera. Ciascun credito di carbonio equivale a una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie a un progetto di tutela ambientale. Semplificando, per ogni tonnellata di CO2 che produce, un’azienda può acquistare un credito di carbonio al fine di neutralizzarne l’impatto sull’ambiente.
Lo scambio di crediti permetterebbe ai grandi inquinatori mondiali di ottemperare agli obblighi di riduzione delle emissioni finanziando progetti verdi. Una multinazionale cinese, ad esempio, potrebbe investire in programmi di energia pulita o di riforestazione in un Paese in via di sviluppo, consentendo idealmente un flusso di denaro in imprese green e in aree più povere o emarginate.
Il mercato dei crediti di carbonio fu inaugurato ufficialmente con la COP19 (la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite) di Varsavia: aderendo allo schema Redd+ (acronimo per Reducing emissions from deforestation and forest degradation in developing countries) le aziende possono da allora acquistare titoli in programmi anti-deforestazione per contrastare l’impatto dei gas serra generati dalle proprie attività. Tali titoli possono essere acquistati in modo volontario o all’interno di un mercato obbligatorio volto a ridurre i danni ambientali causati da grandi industrie del settore siderurgico e chimico. In quest’ultimo agisce, ad esempio, il sistema europeo di scambio delle emissioni, l’ETS.
La COP di Parigi nel 2015 ha cercato di organizzare meglio il mercato del carbonio, chiedendo che a regolarne gli spostamenti di investimenti e l’approvazione dei progetti fossero le Nazioni Unite e che vi vigilasse un organo di sorveglianza. Una proposta sottoscritta e ratificata con l’accordo di Parigi, entrato in vigore cinque anni dopo, ma mai messa in pratica.
I crediti di carbonio acquistati dalle aziende possono essere investiti in due tipi di progetti: quelli di riduzione delle emissioni e quelli di compensazione. I progetti di riduzione operano all’interno di una realtà industriale per migliorarne l’efficienza energetica e ridurne praticamente l’impatto ambientale. Quelli di compensazione, invece, mirano a compensare il danno prodotto da un’azienda assorbendo i gas serra altrove, mediante ad esempio la piantagione di alberi o la protezione delle foreste.
Un mercato controverso – Già quest’ultimo punto potrebbe fare sorgere delle perplessità rispetto alla rivoluzione “green” che tali crediti vorrebbero rappresentare. Un’azienda investitrice in questi titoli potrebbe sentirsi autorizzata a emettere gas serra senza limiti a patto di acquistare un corrispettivo di azioni in programmi contro la deforestazione. Apponendo, addirittura, ai suoi prodotti il marchio di “carbon free” e attirando le simpatie di clienti e investitori ecologisti. Il rischio di “greenwashing” è altissimo. Senza contare il fatto che la misurazione dell’effettiva riduzione dei gas serra nell’atmosfera è un’impresa semplice soltanto a dirsi. Chi o cosa garantisce che ogni credito smaltisca davvero una tonnellata di carbonio? Finora nessun protocollo è stato ratificato all’unanimità.
Quello dei crediti è un mercato che nei decenni ha ciclicamente conosciuto picchi di entusiasmo e repentine battute d’arresto dovute proprio alla scarsa trasparenza dei suoi criteri. Ai tempi del protocollo di Kyoto nel ’97, ad esempio, un’ingente quota di crediti iniziò ad essere scambiato su base volontaria. Tale commercio si sgonfiò in breve tempo a causa delle evidenze che gran parte dei programmi non rallentavano l’emissione di carbonio come promettevano – oltre che per il mancato coinvolgimento degli Stati Uniti, l’investitore all’epoca di maggior interesse sia perché era il Paese più ricco che perché il più inquinante.
Un altro limite del mercato dei crediti è appunto la scarsa partecipazione dei più grandi inquinatori globali: questo ne condiziona la crescita e la credibilità. Gli Stati Uniti, ad esempio, si sono avvicinati a questo strumento di investimento sostenibile solo sotto l’amministrazione Biden e soltanto con finanziamenti molto ridotti.
I più critici, inoltre, dubitano dei crediti non solo per l’assenza di un sistema uniforme che ne certifichi l’impatto ambientale, ma anche perché temono che tale sistema possa disincentivare il progetto di decarbossinazione globale: chi produce gas serra ma acquista crediti per piantare alberi in un altro continente potrebbe sentirsi legittimato a continuare a emettere CO2, allontanando il pianeta dal progetto di diventare “carbon free” per rallentare gli effetti catastrofici della crisi climatica già in atto.
Lo scandalo Verra e il rischio di greenwashing – Nel 2022 un nuovo picco di interesse aveva investito il mercato dei crediti, con oltre 2 miliardi di dollari impiegati in crediti compensatori. Uno scandalo, tuttavia, solo un anno dopo avrebbe fatto precipitare la curva di crescita di questo mercato, dimostrandone le falle e i rischi di greenwashing criminale.
Nel 2023, infatti, vengono pubblicati i risultati di un’inchiesta condotta in un arco di nove mesi dal giornale inglese Guardian, dal settimanale tedesco Die Zeit e da SourceMaterial, una no-profit di giornalismo investigativo. Al centro delle indagini gli studi scientifici sui progetti gestiti da Verra, il leader ecologico delle compensazioni volontarie, attivo soprattutto in programmi di protezione della foresta pluviale. Vi investono, tra gli altri, aziende come Shell, Gucci, Nestlé, EasyJet, Lavazza.
Secondo le analisi scientifiche, fino al 94% dei crediti assorbiti da Verra non avrebbe avuto alcun impatto sul clima. La minaccia di deforestazione sulla base della quale Verra avrebbe definito i suoi progetti e venduto crediti, tra l’altro, sarebbe stata sovrastimata del 400% – dalla stessa Verra, e non da un garante imparziale, mancando in questo mercato un certificatore super partes internazionale. Una terza parte di fatto interviene nel valutare i progetti di compensazione di carbonio, ma si tratta di una terza parte approvata sempre da Verra. Le regole stesse per emettere crediti sono dettate da Verra.
Se una organizzazione impegnata in programmi ambientali, in pratica, avesse voluto promuovere un progetto per fermare la deforestazione di un’area, con il calcolo della “formula Verra” avrebbe potuto convertire gli ettari di verde che prometteva di risparmiare in tonnellate di CO2. E convertire successivamente tali tonnellate di CO2 in crediti di carbonio che la finanziassero, sempre attraverso Verra. Peccato che i calcoli di Verra si siano rivelati gonfiati di 4 volte – e così i crediti che ricavava dal mercato green.
Il reato non consisterebbe semplicemente in un errore di calcolo. Secondo l’indagine, alcune deforestazioni non sarebbero state di fatto arrestate ma semplicemente dirottate su altre aree meno controllate. Vi si aggiungono le violazioni di diritti umani che i reporter del Guardian hanno denunciato dopo indagini e interviste sui siti interessati dai programmi di salvataggio della foresta in Perù: molti residenti nell’area di un progetto Verra hanno raccontato di essere stati sfrattati con violenza dalle loro abitazioni, poi demolite.
Dopo la pubblicazione del dossier, il flusso di capitali dai ricchi investitori industriali verso i progetti di protezione ambientale ha conosciuto una battuta d’arresto pari all’8% secondo l’Ecosystem Marketplace, che monitora la trasparenza dei programmi di sostenibilità delle società americane. Le certificazioni di garanzia “arbitrarie” di questi crediti non sono più sufficienti a controllare un mercato così ampio: senza una legislazione e un controllo rigoroso, il rischio di truffe e greenwashing è troppo alto.
La COP29: pochi risultati ma alcune regole – Dalla COP di Varsavia al caso Varra, uno dei grandi problemi del mercato dei crediti è stata l’assenza di regole concrete. Nessuno si sarebbe aspettato, però, che sarebbe stata proprio la COP29, svoltasi in Azerbaigian dall’11 al 22 novembre, passata in sordina e snobbata da molti leader mondiali, a cercare di segnare una svolta in questo campo. In maniera senz’altro controversa, visti gli auspici del discorso di apertura del Presidente azero Ilham Aliyev, che ha definito i combustibili fossili “un dono di Dio” di cui “il mercato ha bisogno”.
Nell’agenda di Baku, un po’ a sorpresa, è entrata, invece, finalmente l’adozione di regole che vincolassero il mercato dei crediti a standard minimi di qualità. Prima di essere approvato, da ora in poi, un progetto da finanziare con crediti di carbonio dovrà superare una serie di controlli, tra i quali quelli che assicurino il rispetto del principio del “do not harm”: le organizzazioni devono dimostrare in maniera trasparente che i loro progetti “green” non recheranno danni “collaterali” né all’ambiente né al clima – né alla popolazione. Le intenzioni teoriche del trattato di Parigi sono quindi diventate regole per controllare e apporre il bollino delle Nazioni Unite a un mercato finora incline a operazioni poco trasparenti, ma si tratta di regole troppo blande secondo molti osservatori.
Che sia proprio la COP azera a dare speranza alla questione climatica è difficile dirlo. Tanto più che lo scenario sembra più lugubre che mai. Non sono sufficienti le firme dei Paesi membri su un sistema di regole di un mercato di queste proporzioni – mentre venivano apposte le firme, un nuovo studio di Nature Communications segnalava come meno del 16% dei crediti di carbonio scambiati culmina in un’effettiva riduzione di carbonio. Non lo sono soprattutto in un mondo dominato da colossi dell’inquinamento come India e Cina con bassissimi obblighi ecologici in quanto, pur emettendo ingenti volumi di gas serra, figurano come Paesi in via di sviluppo per via del PIL dei loro abitanti. O da altri colossi altrettanto inquinanti come gli Stati Uniti, che hanno rieletto un Presidente lanciato nella corsa all’oro nero e al gas e veramente poco incline alla causa climatica. Pagine Esteri
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