di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 4 settembre 2024 – Durante l’operazione Margine protettivo, condotta da Israele contro Hamas a Gaza dall’8 luglio al 26 agosto 2014, Rafeef Ziadah ha scritto la poesia “If My Words”, inclusa nell’album We Teach Life (2015), nonché un articolo pubblicato su The Guardian, in cui dice: “Ho iniziato la mia vita sotto l’assedio e i bombardamenti israeliani. Fin da bambina ricordo che, mentre l’odore dei proiettili di artiglieria riempiva l’aria di Beirut nel 1982 e correvamo per salvarci, io mi chiedevo: “Perché il mondo permette che ciò accada?” Sul volto dei bambini di Gaza oggi vedo un’altra generazione nata con lo stesso trauma e con la stessa domanda. Com’è possibile permettere che ciò accada? […] Dopo 21 giorni di bombardamenti, Israele rifiuta ancora un cessate il fuoco globale che soddisfi la richiesta minima e unitaria di tutti i palestinesi: consentire alle persone di condurre una vita normale. Questa non è una guerra, tanto meno di autodifesa, ma una spedizione punitiva volta a mantenere l’assedio e l’altrettanto illegale occupazione militare. […] I ministri degli Esteri dell’Unione Europea, perfino dopo aver appreso la notizia del massacro di Shuja’iya, hanno chiesto il disarmo solo di Gaza. Eppure, è l’arsenale hi-tech di Israele, finanziato dagli aiuti statunitensi, dai generosi finanziamenti per la ricerca dell’UE e dal fiorente commercio multimiliardario di armi, che fa piovere l’orrore sui civili”.
Ziadah di fatto espone il contenuto dell’articolo in forma artistica, in “If My Words”, in cui continua a ricostruire la Storia della Palestina e della sua gente, ricordando man mano eventi tragici: l’episodio più emblematico della Nakba, cioè il massacro di Deir Yassin commesso da miliziani terroristi dell’estrema destra sionista, il 9-10 aprile 1948, le stragi di Sabra e Shatila del 1982 a Beirut e molte altre avvenute in Cisgiordania, passate sotto silenzio; giustamente, insiste sulla proverbiale resilienza del suo popolo, indicata dal refrain “noi stiamo resistendo”. Nel testo, la poetessa cita anche il sistema antimissilistico Cupola di Ferro, di cui è dotato Israele, e dettagli dell’offensiva militare israeliana a Gaza del 2014, che costituiscono crimini di guerra, ma rimasti impuniti. Lei esprime, come in “We Teach Life, Sir”, indignazione ed esasperazione per il fallimento del processo di pace di Oslo, i discorsi ambigui su un confronto asimmetrico da sempre, l’ipocrisia della comunità internazionale, dell’Occidente e perfino dei leader palestinesi di al-Fatah e di Hamas, nonché per l’indifferenza generale che circonda la pluridecennale tragedia del suo popolo. Il titolo stesso della poesia, “If My Words”, suggerisce che l’ha scritta, perché era esasperata, le sue richieste pacifiste non erano state ascoltate; l’ha declamata, nel maggio 2016, all’Abbey Theatre di Dublino; infatti, l’ha introdotta, dicendo: “Mi uccide ora il fatto di dover contare le mie poesie in base agli attacchi su Gaza e quel che mi uccide ancora di più è che le persone tendono a ricordarsi di noi e della Palestina solo quando c’è un massacro di massa trasmesso in televisione, ma in tutti gli altri momenti in cui le demolizioni di case sono in corso, il muro dell’apartheid ci impedisce di raggiungere le nostre fattorie, e i palestinesi di Israele sono trattati come cittadini di serie C, il resto del mondo si comporta come se fossero tempi normali”.
Di solito, Ziadah unisce il sé individuale e collettivo, il passato e il presente, la vita in esilio e in patria, una commistione che realizza con un uso accorto dei deittici:
Se le mie parole possono fermare tutto questo
Se potessero sbarrare la strada
a una bomba, un drone o un singolo proiettile
le deporrei ai piedi di ogni bimbo e bimba di Gaza
[…]
Mentre noi contiamo i nostri morti
mi chiedono equilibrio
continuano a chiedermi equilibrio
Lui era solito tenere in equilibrio suo figlio sulle ginocchia e cantare
e ora, ora ha perso le gambe e anche il figlio
[…]
Come posso trovare un equilibrio tra Davide e Golia?
Ditemelo voi
Ma noi stiamo resistendo
Continuiamo a sorridere qui a Gaza.
Stiamo resistendo
Se le mie parole potessero fermare tutto questo
urlerei per ricacciare il sapore di benzina che ho in gola da ormai quattro settimane
Scriverei sulla mia spina dorsale sfigurata come le mappe della Palestina
e mi alzerei in piedi a urlare con tutto il fiato che ho nei polmoni
Fateli fermare, fateli fermare
Per favore, qualcuno li faccia smettere
Sono solo bimbi e bimbe che giocano
La spiaggia è forse vietata?
È rimasto qualche posto sotto il cielo
riempito dalla vostra Cupola di Ferro?
Ma noi continuiamo a sorridere qui
Stiamo resistendo
Se le mie parole potessero fermare tutto questo
discuterei in cerchi intorno a ogni portavoce israeliano
Ditelo a loro, parliamo chiaro
Il vostro accento mellifluo non può giustificare l’uccisione di bambini
Parliamo chiaro, noi non siamo collaterali
Non osate chiamarci “collaterali”
Cerchiamo di parlar chiaro
I vostri punti di discussione forbiti sono conficcati
nella pelle vicino all’osso, come schegge
[…]
Ci hanno chiesto di sfollare, ma poi ci hanno bombardato
E lui si è stretto al petto la testolina della bimba
È viva, è viva, lo giuro, è ancora viva
Hanno dovuto strappargli dalle mani il corpicino
[…]
Questo non è il momento per la poesia
Non c’è più spazio per corpi negli ospedali
non c’è acqua, non c’è elettricità
E in questo buio, in questa oscurità
vorrei che le mie parole potessero trasformarsi in luce, in protezione
Vorrei un po’ di silenzio, un po’ di silenzio
da quelli che lottano per arrivare ai microfoni ed eseguire i loro rituali
da voi che schiamazzate per salire sul palco a parlare della vostra rabbia
Risparmiateci, allontanatevi dalle luci della ribalta
Lasciate parlare Gaza, lasciate parlare Rafah, lasciate parlare Jenin
Che parli Gerusalemme, che parli Shatila, che parli Deir Yassin
Lasciate parlare per sé tutte le persone stese a terra nelle strade di Gaza
Oggi non avviserò della mia morte in 140 caratteri per il vostro Twitter
I miei morti non sono il vostro maledetto status su Facebook
I miei morti non sono lì per essere ammassati in un’infografica che condividerete oggi
E poi dimenticherete
Ma noi stiamo resistendo
Se le mie parole potessero fermare tutto questo
creerei un ritmo più forte di questo battito troppo familiare
imparerei il testo di ogni canto di libertà
e lo scriverei su ogni edificio ancora in piedi a Gaza
[…]
Ma io posso offrirti soltanto questo silenzio e una poesia
e dirti di non preoccuparti
Noi stiamo ancora resistendo […]
In un articolo pubblicato sul quotidiano New Age, il 17 gennaio 2021, Mashiur Rahaman rileva la capacità di Ziadah di usare l’arte della parola parlata, per sensibilizzare le persone desensibilizzate rispetto alle sofferenze altrui. Lei trasmette i sentimenti della sua gente, ovunque si trovino i/le palestinesi hanno sempre nel cuore la Palestina. Provano lo stesso amore per la loro terra, provato per la propria patria da persone costrette a emigrare all’estero o autoctone di paesi, in cui sono razzializzate. Rahaman denuncia la desensibilizzazione mediatica alle violenze, spesso alle immagini di guerre, nonché il suprematismo bianco nelle società degli Stati nazionali moderni, fondati su territori conquistati da colonizzatori europei, autori del colonialismo d’insediamento, per definizione un lungo processo genocidario, come quello avvenuto nelle Americhe, in Australia, Nuova Zelanda e nell’Africa meridionale.
E che sta avvenendo in Palestina. Shaimaa Alareer, figlia del succitato poeta, accademico e attivista Refaat Alareer, ucciso da Israele il 3 dicembre 2023, è stata uccisa, il 27 aprile 2024, insieme al marito e al loro bimbo di appena 2 mesi in un raid israeliano su Gaza City. La notizia dell’uccisione di tre generazioni di una famiglia palestinese ha scioccato Ziadah, le cui poesie sono interconnesse e sempre attuali, perché raccontano la Nakba, un passato che non passa. Lei ha saputo di quell’ennesimo massacro avvenuto a Gaza, durante la sua tournée in Irlanda, quando, inoltre, la Radio di Stato irlandese, RTÉ, ha revocato all’ultimo momento l’invito che le aveva inviato, per partecipare al programma culturale Arena. La cancellazione dell’intervista alla poetessa, decisa “nell’interesse dell’equilibrio”, è un ulteriore tentativo di silenziare i discorsi sulla causa palestinese “perfino ora che Israele sta commettendo un genocidio”; lo afferma il personale del Dipartimento di Inglese dell’Università di Maynooth in una lettera del 1° maggio 2024 indirizzata alla direttrice della sezione Arte e Cultura della suddetta emittente radiofonica.
Riguardo allo stesso fatto indicativo dell’antipalestinismo dilagante in Occidente, Ciaran Tierney aveva già pubblicato su Medium, il 29 aprile, un articolo intitolato “Negare una piattaforma agli oppressi”, in cui denuncia l’ipocrisia e i doppi standard dei leader politici irlandesi: “Condannano il massacro di persone assediate dal 2007 ma, quando si arriva al momento cruciale, non hanno la convinzione necessaria per sostenere il Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia. […] Stanno trascinando l’ambasciatore d’Israele in Irlanda, perché intervenga nei programmi radiofonici, ancora e ancora, per dirci che un genocidio è giustificato o che le vite di uomini, donne e bambini palestinesi innocenti che vivono e muoiono nell’orrore non sono degne della nostra preoccupazione”. Tierney poi dice di avere provato sconcerto constatando che il suo paese, o almeno l’emittente nazionale, aveva deluso di nuovo il popolo della Palestina, rappresentato da Rafeef Ziadah alla quale era stata “negata la piattaforma del principale programma su arte e letteratura trasmesso da RTÉ One”. Il giornalista irlandese esprime la propria ammirazione per la poetessa che aveva visto eseguire al Mick Lally Theatre di Galway lo spettacolo “Let It Be A Tale”, dedicato alla memoria di Refaat Alareer, e si chiede in che modo potrebbe essere silenziata da Israele anche la prossima volta che lei visiterà l’Irlanda.
Ziadah parla proprio di queste forme subdole di censura, in “We Teach Life, Sir”, in cui denuncia la duplice operazione di desensibilizzazione e disinformazione compiuta sistematicamente dai media mainstream occidentali, influenzati dalla hasbara e da più produttori di film hollywoodiani altrettanto responsabili della disumanizzazione del popolo palestinese. Nel prologo di questa poesia, l’autrice spiega infatti di averla scritta nel 2009, perché, mentre Gaza era sotto i bombardamenti israeliani, e lei lavorava come portavoce dell’ufficio stampa di una coalizione pacifista, un giornalista che la voleva intervistare, le aveva chiesto: “Non pensa che tutto andrebbe bene se smetteste di insegnare ai vostri figli a odiare?”. È una domanda tipica dell’antipalestinismo, una delle tante che vengono rivolte a ogni palestinese, colpevole soltanto della sua identità culturale; un classico caso dell’oppressore che colpevolizza le vittime della sua oppressione. Ziadah ha risposto a quel giornalista scrivendo questo testo, in cui lei ripete per ben undici volte il termine soundbite, coniato dai media statunitensi negli anni 1970, per indicare una “breve frase incisiva” o “battuta ad effetto”, estratta da un discorso pronunciato da una figura politica a scopo propagandistico, orecchiabile e facile da memorizzare, adatta alla trasmissione radiofonica e televisiva, e a essere usata per uno slogan. Durante l’intervista, che sembra il copione di un’opera teatrale dell’assurdo, l’intervistatore cerca di censurare i discorsi dell’intervistata, per limitare il sostegno popolare alla Palestina, impedendole di raccontare la verità sull’occupazione militare israeliana, e specialmente sull’operazione Piombo fuso a Gaza. In questa poesia della resistenza, Ziadah esprime le difficoltà che incontra per spiegare al pubblico occidentale, “in un numero limitato di parole”, che le donne e gli uomini palestinesi devono condurre una lotta quotidiana per la sopravvivenza, resistere per difendersi dalle violenze di soldati e coloni israeliani e da una disumanizzazione continua, sopportare una quotidianità segnata da tormenti e lutti, e soprattutto dal dolore inconsolabile per la perdita di ogni loro bimbo e bimba che Israele uccide. Lo stesso giornalista canadese, che professa il politically correct, per desensibilizzare le persone riguardo alle sofferenze altrui, si rivolge inoltre a lei con aria paternalista, un paternalismo misogino, come se stesse “salvando” una donna araba “oppressa”, mentre in realtà lui la reprime politicamente. Cerca di costringerla a parlare della questione della Palestina come se non fosse un problema politico né esistesse.
Nella poesia, Ziadah descrive lo stress psicologico che aveva sperimentato, durante l’intervista, e presenta il proprio corpo come uno scenario reale di palestinesi vittime di un massacro, filmato da una telecamera e spettacolarizzato dai telegiornali. Mentre tenta di denunciare tante morti, è costretta a lottare contro il tempo, per parlare della Palestina, e ricordare tutte le violenze razziste colonialiste, le stragi subite dalla sua gente dall’epoca coloniale in poi, come se le si fossero incise sotto la pelle e lei venisse massacrata dai media mainstream occidentali, che non raccontano mai la verità sulle guerre devastanti lanciate sul suo paese. Il sistema mediatico le impedisce di rendere la dimensione spaventosa della tragedia del popolo palestinese che dura da oltre un secolo; non ci sta nei pochi soundbite di 15 secondi ciascuno, concessi per le risposte da dare in un’intervista rilasciata in un programma informativo televisivo e per giunta censurata.
Non a caso, come già detto, dall’inizio del genocidio di Gaza, persone d’ogni parte del globo si commuovono più che mai nel vedere Rafeef Ziadah declamare appunto “We Teach Life, Sir”, il capolavoro per cui è la poetessa odierna che rappresenta la Palestina a livello globale:
Oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV.
Oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV che doveva stare in soundbite e un numero limitato di parole.
Oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV che doveva stare in soundbite e un numero limitato di parole
abbastanza pieno di statistiche per una risposta controbilanciata.
E ho perfezionato il mio inglese e imparato le risoluzioni dell’ONU.
Eppure, lui mi ha chiesto, signorina Ziadah, non pensa che tutto si risolverebbe se solo smetteste di insegnare così tanto odio ai vostri figli?
Pausa.
Cerco dentro di me la forza per essere paziente, ma la pazienza non mi sta sulla punta della lingua
mentre le bombe cadono su Gaza.
La pazienza mi ha appena abbandonata
Pausa. Sorriso.
Rafeef, ricordati di sorridere.
Pausa.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi palestinesi insegniamo la vita dopo che ci hanno occupato l’ultimo cielo.
Insegniamo la vita dopo che hanno costruito i loro insediamenti e muri dell’apartheid, dopo gli ultimi cieli.
Noi insegniamo la vita, signore.
Ma oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV che doveva stare in soundbite e un numero limitato di parole.
E ci regali una storia, una storia umana.
Vede, questo problema non è politico.
Vogliamo solo raccontare alla gente di lei e del suo popolo, quindi ci racconti una storia umana.
Non menzioni parole come “apartheid” e “occupazione”.
Questo problema non è politico.
Deve aiutarmi come giornalista ad aiutarla a raccontare la sua storia che non è una storia politica.
Oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV.
Che ne dice di raccontarci la storia di una donna di Gaza che ha bisogno di cure?
E voi?
Avete abbastanza arti pieni di ossa rotte per coprire il sole?
Consegnatemi i vostri morti e datemi la lista dei loro nomi nel limite di milleduecento parole.
Oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV, tagliato per stare in pochi soundbite e un numero limitato di parole
per commuovere coloro che sono desensibilizzati al sangue terrorista.
Ma erano dispiaciuti.
Erano dispiaciuti per il bestiame steso su Gaza.
Quindi, do loro le risoluzioni e le statistiche dell’ONU,
e noi condanniamo e deploriamo e ripudiamo.
Ma queste non sono due parti uguali: occupante e occupata.
E cento morti, duecento morti e mille morti.
E in mezzo, crimine di guerra e massacro, io libero parole e sorrido “non esotica”, “non terrorista”.
E riconto, riconto cento morti, mille morti.
C’è nessuno là fuori?
Qualcuno ascolterà?
Vorrei poter piangere a lutto sui loro corpi.
Vorrei poter correre scalza in ogni campo profughi, e abbracciare ogni bimbo e bimba,
coprire loro le orecchie perché non debbano sentire il rumore dei bombardamenti
per il resto della vita come faccio io.
Oggi il mio corpo era un massacro trasmesso in TV
E lasciate che vi dica che le vostre risoluzioni ONU non hanno mai fatto nulla al riguardo.
E nessun soundbite, nessun soundbite che mi venga in mente, non importa quanto migliori il mio inglese, nessun soundbite, nessun soundbite, nessun soundbite, nessun soundbite li riporterà in vita.
Nessun soundbite risolverà questo problema.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare al resto del mondo la vita, signore.
Fonti principali
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Bhandar, Brenna & Ziadah, Rafeef, “Acts and Omissions: Framing settler Colonialism in Palestine Studies”, Jadaliyya, Jan. 14, 2014, https://www.jadaliyya.com/Details/32857
Canova, Giovanni, “La poesia della resistenza palestinese”, Oriente Moderno, Anno 51, Nr. 6/8, 1971: 583-630.
Cazzato, Luigi, “L’archivio palestinese rimosso e l’archivio-corpo di Rafeef Ziadah”, de Genere – Rivista di studi letterari postcoloniali e di genere, 2018: 73-84.
Chomsky, Noam & Pappé, Ilan, Gaza in Crisis: Reflections on Israel’s War Against the Palestinians, Penguin, 2011 (Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi, Ponte alle Grazie, 2023).
Cooke, Miriam, “Arab Women Arab Wars”, Cultural Critique, No. 29, (Winter 1994-1995): 5-29.
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Sibilio, Simone, Poesia araba moderna e contemporanea, Ipocan, 2022: 121-153.
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*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).
L’articolo CULTURA. La diaspora palestinese e la parola parlata della poetessa Rafeef Ziadah (Parte 3) proviene da Pagine Esteri.