Dalle voci su un prossimo incontro tra Donald Trump e Xi Jinping, al gelo tra Cina e Stati Uniti. A convincere Pechino che non c’è da fidarsi dell’amministrazione repubblicana sono stati non soltanto i dazi sulle merci importate dalla Cina, che Trump ha aumentato del 20 per cento, ma anche i primi passi del nuovo governo Usa nel Pacifico.
La settimana scorsa, durante il suo viaggio in Asia il segretario alla Difesa, Pete Hegseth ha esposto con questo discorso la visione strategica del Pentagono per quanto riguarda l’Indo-Pacifico. Il succo è che gli Usa intendono mantenere l’egemonia nella regione, le parole di Hegseth sono state a tal proposito molto chiare, e il tono da Guerra fredda:
“Ripristinando l’ethos guerriero, le forze statunitensi assegnate all’Indo-Pacifico saranno le forze meglio addestrate e meglio equipaggiate al mondo. […] Lavoreremo con i nostri alleati e partner per fermare i comunisti cinesi e la loro aggressione nell’Indo-Pacifico.[…] La nostra missione è evitare la guerra, ma se sarà necessario, assieme sconfiggeremo e distruggeremo i nostri nemici. […] Nessuno deve mettere in dubbio la determinazione degli Stati Uniti d’America nel difendere i nostri interessi nell’Indo-Pacifico e oltre”.
Hegseth ha ribadito l’attualità della strategia reaganiana “Pace attraverso la fermezza” (Peace through strength), che implica il potenziamento degli eserciti e il riarmo, degli Stati Uniti e dei loro alleati in Asia, invocato esplicitamente dal segretario alla Difesa. Il ministro di Trump (che ha partecipato alle guerre in Iraq e Afghanistan) non ha fatto alcun riferimento diretto a Taiwan. Del resto nei contatti delle scorse settimane Pechino aveva sempre ribadito a Washington che quella di Taiwan (ovvero l’inviolabilità del principio “una sola Cina”) rappresenta una linea rossa, da non valicare.
Tuttavia nelle scorse settimane il dipartimento di stato ha cancellato dal suo sito internet la frase «non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan», facendo aumentare a Pechino i sospetti che anche Trump, così come il suo predecessore, Joe Biden, voglia rafforzare il sostegno militare all’isola e all’”indipendentista” Partito progressista democratico (Dpp) al governo.
Il discorso di Hegseth a Honolulu era stato preceduto dall’iniziativa del presidente di Taiwan, di William Lai Ching-te (leader del Dpp, autodefinitosi un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”), che, il 13 marzo scorso, ha definito la Repubblica popolare cinese una “forza straniera ostile” e ha proposto un pacchetto di 17 provvedimenti, tra i quali la reintroduzione della corte marziale in tempo di pace, per combattere «i tentativi di infiltrazione e di spionaggio della Cina nell’esercito»; un “obbligo di dichiarazione” per i funzionari taiwanesi che intendano visitare la Repubblica popolare cinese; e requisiti più stringenti per ottenere la residenza a Taiwan per chi arriva dalla Cina continentale, Hong Kong e Macao.
Un programma per realizzare il quale servirebbe una maggioranza che probabilmente Lai non otterrà in parlamento. Per la Cina si tratta comunque di un inaccettabile tentativo di separare i “compatrioti di Taiwan” dalla madrepatria. Pechino ha risposto con una esercitazione militare intorno all’isola alla quale, iniziata martedì 2 aprile, hanno preso parte una ventina di navi da guerra guidate dalla portaerei “Shandong”, bombardieri strategici armati con vettori ipersonici, caccia invisibili, la forza missilistica dell’Esercito popolare (Epl) di liberazione e la guardia costiera (implementando la strategia di fusione civile-militare).
Il portavoce militare, Shi Yi, ha dichiarato che il war game è stato un «severo avvertimento e un forte deterrente per le forze separatiste dell’indipendenza di Taiwan, un’azione legittima e necessaria per difendere la sovranità e salvaguardare l’unità nazionale».
Le continue esercitazioni segnalano che Pechino si sta preparando a uno scenario di guerra nello Stretto: l’Epl ammodernato nell’ultimo decennio possiede ormai i mezzi necessari per un blocco navale o un’invasione di Taiwan.
Tuttavia, non è ancora chiaro come Trump – al momento concentrato sui dazi e sull’Ucraina, mentre Gaza è stata abbandonata all’arbitrio di Israele – intenda giocarsi la “carta” Taiwan, se per innervosire la leadership di Pechino o, al contrario, come pedina di scambio nell’ambito di un accordo più ampio (commerciale anzitutto) con la Cina, che non si può ancora escludere.
Torna la fiducia degli investitori nelle performance delle compagnie cinesi, che nel primo bimestre del 2025 hanno fatto registrare un aumento delle offerte pubbliche iniziali (Ipo), preferendo però quotarsi a Hong Kong piuttosto che negli Stati Uniti o nella Cina continentale.
Al suo debutto a Hong Kong il 3 marzo scorso, Mixue Group, una delle principali catene cinesi di bubble tease bevande, ha visto le sue azioni salire del 43 per cento a HK$290 (37,30 USD). Mentre, sempre all’inizio del mese scorso, un altro produttore di bevande al tè, Chagee Holdings Ltd., ha ottenuto il via libera per una Ipo negli Stati Uniti.
Sono stati 31 i via libera della China Securities Regulatory Commission (Csrc) alle Ipo di compagnie cinesi nel periodo gennaio-febbraio 2024, contro i 24 sia nel terzo che nel quarto trimestre 2024.
In sostanza la Csrc, dopo gli ultimi anni di stasi, sta incoraggiando nuovamente le aziende cinesi a raccogliere capitali all’estero. E – nel nuovo mondo segnato dalla “rinnovata competizione tra grandi potenze” – Hong Kong sta emergendo come la piazza preferita, per la sua vicinanza alla Cina continentale, la sua stabilità politica e la qualità dei servizi offerti.
Tra i candidati a una quotazione nel Porto profumato c’è anche la numero uno al mondo delle batterie elettriche, CATL, al momento presente sui listini continentali. Secondo i dati del giornale economico Caixin, delle 154 richieste di quotazione prese in esame fino alla metà del mese scorso dalla Csrc soltanto 34 (il 22 per cento) sono dirette verso gli Usa. Non è solo l’effetto Trump: è infatti dalla metà del 2023 (con l’amministrazione Biden) che gli Stati Uniti hanno reso più complessa la quotazione di aziende straniere, diventando meno appetibili anche per quelle cinesi.
Dall’inizio del 2025 almeno 13 compagnie cinesi hanno avviato le pratiche per quotarsi a Hong Kong, tra le quali CATL, Jiangsu Hengrui Pharmaceuticals, Foshan Haitian Flavouring and Food e Sichuan Biokin Pharmaceutical. Il colosso globale delle batterie elettriche CATL ha depositato la sua domanda di quotazione l’11 febbraio. La sua Ipo – è prevista la raccolta di almeno 5 miliardi di dollari – dovrebbe essere la più grande di Hong Kong degli ultimi quattro anni. La compagnia ha fatto sapere che i proventi saranno utilizzati principalmente per espandere la capacità produttiva all’estero, per lo sviluppo commerciale internazionale e il ripristino del capitale operativo all’estero e per fornire supporto finanziario alla sua strategia di internazionalizzazione a lungo termine.
Anche le compagnie tecnologiche cinesi, spinte dall’effetto DeepSeek, cercano di quotarsi preferendo Hong Kong alle borse della Cina continentale. L’attuale ciclo di diminuzione delle Ipo nella Mainland va avanti da 18 mesi, e – secondo gli analisti di Citic Securities – ha ridotto la capacità del mercato azionario di servire l’economia reale.
Ad agosto 2023, gli enti di regolamentazione del governo cinese hanno iniziato a rallentare il ritmo delle Ipo e a rendere più difficile per le aziende quotarsi, nell’ambito di una serie di misure varate per invertire il declino del mercato azionario e ripristinare la fiducia degli investitori.
Ma da quando, a settembre 2024, il governo ha messo in campo una serie di politiche di stimolo, tra cui fondi per ricapitalizzare le aziende quotate in difficoltà, l’indice di riferimento CSI 300 è balzato di circa il 20 per cento.
Questo articolo è stato pubblicato in origine dalla newsletter Rassegna Cina
L’articolo CINA-USA. Il Pacifico dei “guerrieri americani” proviene da Pagine Esteri.