di Michelangelo Cocco – Rassegna Cina
(foto Ting Shen/Xinhua)
Il ritorno alla Casa bianca di Donald Trump – ufficialmente in carica dal 20 gennaio 2025 – rappresenta per Pechino una sfida impegnativa per l’imprevedibilità del 47° presidente degli Stati Uniti d’America e la sua pretesa di far valere gli interessi Usa attraverso la forza, ma anche un’opportunità, in quanto la politica estera di Trump, muscolare e “irrispettosa” delle tradizionali alleanze statunitensi, potrebbe finire per aprire ulteriori spazi a Pechino, che si propone come l’alternativa stabilizzatrice dell’economia globale e fautrice di relazioni win-win.
Per capire come potrà essere orientata la politica sulla Cina della nuova amministrazione Trump, partiamo da una serie di doverose premesse:
1) la politica estera è largamente influenzata da quella interna, e ciò vale ancor di più per l’isolazionista Trump, da cui gran parte degli elettori si aspetta soprattutto protezione: Trump andrà incontro a quest’ansia della sua base aumentando i dazi sulle merci importate (in primis quella dalla Cina) nel tentativo di riportare produzione e lavoro negli States.
2) bisognerà vedere quali funzionari Trump nominerà negli organismi più importanti per affrontare i dossier legati alla Cina: al Consiglio per la sicurezza nazionale, nel dipartimento del Commercio, in quello di Stato: dati i precedenti e il clima che domina la politica Usa, c’è da attendersi comunque dei falchi anti-Cina;
3) sarà interessante scoprire se/quale ruolo verrà riservato a Elon Musk, decisivo per la vittoria di Trump, tra gli uomini più potenti del pianeta, con rapporti con il Partito comunista cinese, in particolare con il suo numero due, il premier Li Qiang, con il quale ha negoziato l’investimento della Gigafactory 3 di Tesla, che nel 2018 ha iniziato la produzione a Shanghai.
4) per il suo secondo mandato, Trump si è assicurato il controllo del Senato (a maggioranza repubblicana), la cui commissione affari esteri ha importanti poteri in materia di politica estera.
Un’ultima premessa: è opportuno ricordare anche che, durante il suo primo mandato, Trump si è comportato come un ultrà anti-Cina, pronunciando dichiarazioni al vetriolo e varando provvedimenti estremamente controversi: è stato il primo presidente Usa a telefonare a un presidente di Taiwan (Tsai Ing-wen) per congratularsi per la sua elezione; nel 2017, ha firmato la prima strategia di sicurezza nazionale Usa apertamente anti-cinese; l’anno successivo ha scatenato contro Pechino una guerra commerciale; sempre nel 2018 ha lanciato la liberticida China Initiative; durante la pandemia di Covid-19 ha dipinto la Cina come untrice globale.
Ciononostante, oggi il presidente cinese, Xi Jinping, ha telefonato a Trump per congratularsi per la sua rielezione, e auspicando «una relazione Cina-Usa stabile, sana e sostenibile, nell’interesse comune dei due paesi e nelle aspettative della comunità internazionale».
Ma ora vediamo come le principali politiche trumpiane potrebbero colpire la Cina e incidere sulle relazioni tra la prima e la seconda economia del pianeta.
Dazi pazzi? Un boomerang interno e internazionale
Per Trump è essenziale riequilibrare il deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Cina, pari nel 2023 a 279,4 miliardi di dollari. Trump potrebbe rimettere sul tavolo della trattativa con Pechino l’accordo commerciale negoziato nel 2020, che richiedeva alla Cina di acquistare ulteriori materie prime statunitensi per un valore di 200 miliardi di dollari.
Mentre la domanda interna ristagna, per la Cina le esportazioni restano fondamentali: il mese scorso il loro valore ha toccato i 309 miliardi di dollari (+12,7 per cento su base annua). Nello stesso mese quelle verso gli Stati Uniti sono cresciute dell’8,1 per cento.
In campagna elettorale Trump ha promosso dazi fino al 60 per cento su tutte le merci importate negli Usa dalla Cina e del 10 per cento sui beni che arrivano da altri paesi. C’è chi addirittura ipotizza che il suo governo possa imporli non soltanto sul “made in China”, ma anche sul “made by China”, cioè sui beni fabbricati all’estero da aziende cinesi.
Come che sia, tentare di riportare la manifattura negli States a colpi di tariffe presenta nel medio periodo due effetti collaterali: i costi si ripercuoterebbero, almeno in parte, sui consumatori, che pagherebbero di più i prodotti che l’America dovrà continuare a importare; la possibilità che il protezionismo Usa irriti l’Unione Europea, avvicinandola alla Cina.
Supply chain e ombrello Usa
Se Trump imporrà dazi elevati sulle merci in arrivo dalla Cina, la regione che ne risentirà di più (oltre alla Cina) sarà il Sud-est asiatico. Infatti, da un lato, una quantità sempre maggiore di compagnie, cinesi e internazionali, si sposterebbero sempre più in quell’area per aggirare le tariffe e, dall’alto, i governi di quei paesi potrebbero essere spinti maggiormente sotto l’ombrello militare Usa, in conseguenza dell’aumento delle tensioni tra Washington e Pechino.
Poco valore alle alleanze
Come sembrano suggerire i primi contatti con i leader europei, in una Unione Europea più debole per l’inceppamento del suo tradizionale motore franco-tedesco e nei confronti della quale non ha mai nascosto il suo disprezzo, Trump interloquirà prevalentemente con i leader della destra sovranista, come la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il premier ungherese Viktor Orbán.
Nella regione Asia-Pacifico Joe Biden ha investito nel rafforzamento – politico e militare – delle tradizionali alleanze degli Stati Uniti (Giappone, Corea del Sud, Australia, Filippine…), portando avanti un’alleanza delle democrazie liberali contrapposta all’autoritarismo (russo-cinese). Al contrario Trump ha espresso più volte dubbi sulla necessità del mantenimento della Nato e del massiccio stanziamento di truppe statunitensi all’estero.
Dall’Ucraina alla Cina
Se davvero – come più volte promesso dal candidato Trump – la nuova amministrazione repubblicana contribuirà a porre fine alla guerra in Ucraina, ciò permetterebbe agli Stati Uniti di concentrarsi sulla Cina, che secondo la strategia di sicurezza nazionale pubblicata dall’amministrazione Trump nel 2017 viene così definita, messa sullo stesso piano della Russia: «sfidano il potere, l’influenza e gli interessi americani, tentando di erodere la sicurezza e la prosperità americana. Sono determinati a rendere le economie meno libere e meno giuste, a far crescere i loro eserciti e a controllare informazioni e dati per reprimere le loro società ed espandere la loro influenza».
Su Taiwan Trump ha dichiarato che «deve pagarci le armi che le forniamo» e che «ci hanno rubato la manifattura dei microchip». Sparate che riflettono una visione secondo la quale l’isola (alla quale gli Usa forniscono armamenti a scopo difensivo in base al Taiwan Relations Act del 1979) può diventare merce di scambio: stop al sostegno politico e militare a Taiwan, in cambio di un sostanziale riequilibrio del deficit commerciale degli Usa nei confronti della Cina. Tanto che a Taipei policymaker e analisti si stanno interrogando in queste ore sulla necessità di non dipendere più unicamente dagli Stati Uniti per la propria difesa.
Mano libera a Pechino in America latina e Africa
Le misure anti-immigrazione di Trump, con il tentativo di “sigillare” la frontiera con il Messico, potrebbero avere l’effetto di suggerire ulteriori aperture da parte dei paesi dell’America latina agli investimenti cinesi.
Nello stesso tempo, dato lo scarso interesse manifestato da Trump per l’Africa, anche nel continente nero è prevedibile che si possano creare più spazi per la penetrazione politica ed economica della Cina.
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