di Claudio Avella –
Pagine Esteri, 25 settembre 2024. Peshawar si trova a pochi chilometri dal confine con l’Afghanistan. È la capitale del Khyber Pakhtunkhwa, una regione pakistana a maggioranza Pashtun nel nord ovest del paese. Qui risiede il 70 % dei circa 4 milioni stimati di rifugiati afgani.
Spesso ci si imbatte in famiglie di persone rifugiate. L’incontro con Marghalai è avvenuto così, casualmente, in un parco di divertimenti della periferia di Peshawar.
Marghalai e le sue figlie sono attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan. Prima dell’arrivo dei Talebani al potere, Marghalai ha lavorato come esperta di genere per promuovere il lavoro femminile presso il Ministero degli Interni, per il Combined Security Transition Command – Afghanistan, organizzazione militare guidata dagli Stati Uniti.
Dopo l’arrivo dei Talebani al potere, Marghalai ha perso il lavoro ed è diventata uno dei membri di punta del gruppo di attiviste Afghanistan’s Main Powerful Women Movement (AMPWM), con cui organizzava proteste nelle strade di Kabul.
La fuga verso il Pakistan è avvenuta dopo che il suo gruppo è stato scoperto, e le aderenti identificate e schedate attraverso la moglie di un Talebano infiltrata. Il marito di Marghalai è morto dopo essere stato arrestato e torturato. Marghalai e la sua famiglia sono giunti in Pakistan circa un anno fa, dopo otto mesi di fughe. L’unica figlia rimasta più a lungo è una giornalista, scappata sei mesi fa, dopo essere stata catturata e torturata.
Marghalai avrebbe diritto a migrare negli USA attraverso un Visto di Immigrazione Speciale per Afgani, ma per un vizio di forma lei e la sua famiglia sono ancora in attesa, in Pakistan.
Tramite Mafkoora, organizzazione che ha base a Peshawar e si occupa di diffusione di pratiche non-violente e di contrastare gli estremismi attraverso l’arte, ho incontrato diversi altri rifugiati. Mafkoora ha supportato musicisti, transgender, giornalisti e attivisti per i diritti civili afgani: circa un anno fa, anticipando le politiche di rimpatrio del governo pakistano, ha organizzato diverse manifestazioni pubbliche e, con il supporto dell’organizzazione Society for Human Rights & Prisoners’ Aid (SHARP-Pakistan), affiliata all’UNHCR, ha ottenuto dall’Alta Corte il divieto per la polizia di arrestare persone appartenenti a queste categorie. Hayat Roghaani, fondatore di Mafkoora, racconta, infatti, che molto spesso la polizia arresta o molesta rifugiati afgani al fine di ottenere tangenti.
Rafique e Ustad sono due musicisti fuggiti in Pakistan da quando i Talebani hanno vietato la riproduzione di musica.
Rafique ha lavorato per anni come suonatore di harmonium, cantante e ingegnere del suono per la televisione afgana e già prima della caduta di Kabul aveva ricevuto minacce da parte di gruppi Talebani.
Il racconto di Ustad è molto simile: era un famoso suonatore e maestro di tabla, ma è stato costretto a scappare in Pakistan.
Rafique e Ustad, nonostante la fama che li contraddistingueva in Afghanistan, faticano a trovare ingaggi e da mesi non riescono a pagare gli affitti e a mantenere le proprie famiglie. Entrambi hanno fatto richiesta di asilo, ma da tre anni a questa parte non ricevono risposte dall’UNHCR.
Liaqat Banori, avvocato per i rifugiati, spiega che le attese dipendono dalle quote stabilite dagli Stati aderenti ai programmi di accoglienza dei richiedenti asilo e dalla necessità di dare priorità a chi appartiene alle categorie più vulnerabili, come coloro che hanno svolto lavori per il governo afgano o per gli Stati Uniti.
Esin, Zamair e Paksima (nomi di fantasia), di 18, 22 e 15 anni rispettivamente, si sono lasciate intervistare, in forma anonima, nella sede di un’organizzazione che sta dando loro un supporto per continuare la propria educazione di base, attraverso corsi di inglese e informatica: da tre anni a questa parte, quando hanno lasciato l’Afghanistan, hanno dovuto interrompere gli studi.
“Prima dell’arrivo dei talebani al potere avevo la libertà di studiare e muovermi. Mettevo tutti i miei sforzi per poter ottenere buoni voti e ricevere una borsa di studio per studiare all’estero. In un solo giorno ho perso ogni sogno che avevo, ogni piano”, racconta Esin.
Ricreare una vita normale in Pakistan è molto difficile: Esin e la sua famiglia hanno cambiato casa più volte. Una delle ragioni è evitare controlli della polizia, che durante la prima ispezione ha comunicato loro che il documento rilasciato dall’UNHCR non era valido per risiedere in Pakistan.
Anche ottenere un minimo reddito è difficile: Esin all’inizio del 2024 aveva trovato un lavoro, ma dopo sei mesi il suo posto è stato ceduto a un’altra ragazza pakistana.
Zamaair e la sua famiglia hanno dovuto vendere tutto quello che possedevano per poter vivere in Pakistan. Anche lei e la sua famiglia hanno sottoposto il loro caso all’UNHCR per richiedere asilo in un altro paese, ma stanno aspettando da un anno e mezzo: “Ci rechiamo tutte le settimane presso gli uffici dell’UNHCR, ma ci dicono di attendere.”
Anche Paksima e la sua famiglia sono in attesa da anni di ottenere asilo, nonostante la loro situazione sia ancora più a rischio. Il padre di Paksima lavorava per un’agenzia dell’esercito statunitense. I Talebani li hanno catturati e torturati. Sono arrivati in Pakistan con un visto regolare, ma oggi hanno problemi economici, poiché il padre è malato, la madre non ha competenze per svolgere un lavoro e non hanno più aiuti dai propri parenti che vivono nel Regno Unito.
“Conservo ancora speranze, ma senza un’educazione e senza un lavoro come è possibile fare piani? Abbiamo perso già troppo tempo nella nostra vita. Voglio solo una piccola cosa dalla mia vita: studiare”, dice Zamaair. Pagine Esteri
L’articolo Storie afgane di fughe e diritti negati proviene da Pagine Esteri.