di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 5 novembre 2024 – Gli Stati Uniti – e non solo – tengono oggi il fiato sospeso in attesa della conclusione delle operazioni di voto per l’elezione del nuovo capo dello stato.
Nella giornata di ieri sono state rafforzate le misure di sicurezza in tutto il paese e soprattutto a Washington, dove barriere e recinzioni sono state erette intorno alla Casa Bianca, alla sede del Congresso e alle residenze dei due principali sfidanti. Nel centro della capitale federale anche le attività commerciali sono state chiuse a scopo precauzionale in previsione di possibili scontri o atti vandalici.
Trump grida già ai brogli
Sulle elezioni più militarizzate della storia statunitense gravano i vari tentativi di colpire il candidato repubblicano nelle scorse settimane.
Ma il timore è soprattutto che Donald Trump non riconosca un’eventuale sconfitta – come del resto non ha mai riconosciuto quella del 2020 – e inciti gli ambienti dell’estrema destra ad occupare i palazzi del potere come avvenne nel gennaio del 2021 con l’assalto al Campidoglio.
Numerosi stati – a partire da Washington, Oregon e Nevada – hanno allertato già ieri la Guardia Nazionale per far fronte ad eventuali rivolte.
Se si trovasse in svantaggio, il tycoon potrebbe comunque proclamare la propria vittoria ancor prima della conclusione dello spoglio elettorale, contestando i risultati ufficiali. D’altronde già ieri Donald Trump ha denunciato presunti brogli nella gestione e nel conteggio del voto anticipato in Pennsylvania, uno degli stati da cui dipenderà l’esito dello scontro.
«La Pennsylvania sta barando e la stanno cogliendo sul fatto, a livelli raramente visti in passato. Denunciate le frodi alle autorità. Le forze dell’ordine devono agire, ora!», ha scritto l’ex presidente sui social, mettendo in dubbio anche l’affidabilità del voto elettronico.
Sempre ieri Trump ha affermato che «non avrebbe mai dovuto lasciare la presidenza» accusando i democratici di “rubare” le elezioni.
Da mesi il miliardario e i suoi ripetono al proprio elettorato che il vantaggio del repubblicano è schiacciante e che un risultato favorevole alla candidata democratica sarà possibile solo grazie massicci brogli. Negli ultimi giorni le fake news sull’importazione di stranieri per votare Harris – con tanto di video di un immigrato haitiano in procinto di distruggere delle schede votate a favore di Trump – e sul presunto condizionamento del voto si sono moltiplicate nell’infosfera anche grazie alla tolleranza di Truth e di X, il social di Elon Musk che ha contribuito con centinaia di milioni di dollari alla campagna elettorale della destra radicale.
Record del voto anticipato
Forse proprio l’alto tasso di tensione, oltre che i pressanti inviti di Trump, hanno convinto moltissimi elettori ad avvalersi del voto anticipato e per corrispondenza; alla fine oltre 78 milioni di cittadini e cittadine hanno già espresso la propria indicazione. Se l’affluenza fosse simile a quella di quattro anni fa – il 66% dei 244 milioni di aventi diritto – oggi alle urne dovrebbero recarsi circa 84 milioni di persone, parte dei quali dovranno eleggere anche 13 governatori di altrettanti stati.
Anche l’ultimo scampolo di campagna elettorale i due candidati principali lo hanno dedicato agli “swing state”, gli stati “in bilico” – Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin – che probabilmente decideranno l’esito complessivo del voto visto che tutti i sondaggi danno Harris e Trump appaiati, con la prima in leggero vantaggio sul secondo.
La vicepresidente in carica ha mobilitato tutti i vip che è riuscita a convincere – da Jennifer Lopez a Beyoncé, da Ricky Martin a Bruce Springsteen, da Eva Longoria a Lady Gaga – sperando di smuovere elettori indecisi ma sensibili agli appelli delle star. Anche un gran numero di repubblicani hanno scelto di sostenere Kamala Harris, tra cui la figlia dell’ex inquilino della Casa Bianca George W. Bush, Barbara Pierce Bush, che si è unita a Liz Cheney e all’ex governatore della California Arnold Schwarzenegger.
Un referendum pro o contro Trump
Le caratteristiche dello sfidante repubblicano e il timore di un ripetersi della violenza innescata da Trump tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 hanno di fatto trasformato la competizione elettorale in un referendum pro o contro il tycoon. Ma a sfidarsi sono due candidati che non generano particolari entusiasmi nell’elettorato.
Secondo l’ultimo sondaggio realizzato da Ipsos poll per “Abc News”, i due sfidanti sono giudicati come insoddisfacenti per il 60% del campione. Gli elettori di Trump sono leggermente più convinti rispetto a quelli di Harris (58 vs 61% di giudizi negativi).
Se la tardiva scelta della vicepresidente in sostituzione del “bollito” Joe Biden ha rivitalizzato il campo democratico, è anche vero che il profilo centrista e conformista della sfidante di Trump non sembra in grado di suscitare la mobilitazione di settori progressisti e radicali. La campagna elettorale non ha visto alcun protagonismo da parte dei Democratic Socialists of America, l’organizzazione politica di Bernie Sanders che già 4 anni fa decise di non supportare la candidatura di Biden e che a luglio ha revocato il sostegno ad Alexandra Ocasio-Cortez, giudicata troppo ambigua sul genocidio del popolo palestinese.
Un atteggiamento condiviso con la vicepresidente, che se pure promette in caso di vittoria di “riportare a casa gli ostaggi israeliani” e di assicurare la difesa dei diritti nazionali dei palestinesi non ha fatto altro, nelle ultime settimane, che assicurare un sostegno totale a Tel Aviv. Un atteggiamento che le ha inimicato una parte importante della comunità arabo-musulmana.
Se è vero che Kamala Harris ha scelto un esponente dell’ala progressista del Partito Democratico come Tim Walz (sostenitore dei diritti civili ma anche del diritto degli americani di portare armi) come suo vice in caso di vittoria, è evidente il suo tentativo di rincorrere a destra l’agenda trumpiana per cercare di conquistare l’elettorato repubblicano moderato. Se ci riuscirà si capirà nei prossimi giorni dall’analisi dei flussi elettorali.
Il focus su economia e immigrazione
Invece è già certo che settori di classe operaia tradizionalmente democratici (soprattutto quelli con un livello di istruzione inferiore) e porzioni sempre più consistenti delle minoranze etniche sceglieranno di votare per il candidato populista di destra, attirati dalle sue promesse in campo economico e dalle sue rassicurazioni sull’aumento della repressione contro la piccola criminalità. I dati sulla disoccupazione sono molto bassi, ma l’inflazione degli ultimi anni – anche se ridiscesa intorno all’1% – ha eroso una porzione consistente del potere d’acquisto di salari e pensioni, indispettendo la working class bianca e non solo.
D’altronde, stando a un recente sondaggio, per gli elettori la priorità non è rappresentata tanto dalle proposte sull’aborto, sui diritti civili o sulla politica estera, ma dalle proposte sull’economia e in seconda battuta sull’immigrazione.
In un comizio in North Carolina, ieri Donald Trump ha minacciato di imporre una tariffa del 25% su tutte le importazioni dal Messico se il paese «non fermerà l’assalto» dei migranti al confine.
Alle sparate del repubblicano Kamala Harris risponde con la promessa di ridurre le tasse alla classe media aumentandole nel contempo sui grandi patrimoni.
Intanto il miliardario ha già fatto trapelare i nomi di alcuni dei suoi ministri all’interno di un eventuale esecutivo molto “Maga” (dal suo slogan “Make America Great Again”) composto da falchi e fedelissimi e che include naturalmente Elon Musk.
L’ex procuratrice invece ha promesso l’inclusione di un esponente repubblicano in una sua eventuale compagine di governo, una certa discontinuità rispetto al mandato di Biden e la presenza di un numero maggiore di donne. Pagine Esteri
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