Testo e foto di Giovanna Cavallo*

Il silenzio della pietra, il grido della piazza. Il primo incontro.

La prima volta che arrivai a Suwayda era estate. Ricordo la luce abbacinante del mezzogiorno, il calore che si raccoglieva sul selciato e il nero delle pietre basaltiche che sembravano trattenere le storie di secoli. C’è qualcosa di sacro ma anche di sobrio in questa città costruita sulla roccia: la discrezione delle facciate, i silenzi nei vicoli, gli ulivi che resistono come tutto qui, in silenzio ma con maestosa grandezza. Quella pietra nera che amplificava il colore desertico della città, emanava il vibrare dei battiti del cuore millenario sotto il peso della sua memoria, tanto straordinaria quanto dolorosa.

Quando giunsi la prima volta fu a bordo di un autobus proveniente da Damasco, era il 2019, assieme a Yazan, che ora si trova a Dubai con sua moglie. La guerra sembrava lontana, almeno nelle sue forme più visibili nonostante il regime di Assad fosse ancora al potere. Suwayda pareva vivere in una bolla, né del tutto fedele, né ribelle, semplicemente trattenuta nel suo isolamento druso e nella sua prudenza secolare. Un equilibrio precario che tutti sentivano destinato a spezzarsi, prima o poi e che restava intrappolato come in una prigione. Il respiro della città era in quella che già allora era diventata la Piazza al-Karama in mezzo ai caffè modesti e ai piccoli uffici, dove si raccoglievano voci diverse: giovani attivisti, anziani religiosi, donne impegnate nel sociale. Si parlava a mezza voce, ma si dicevano cose grandi: cambiamento, giustizia, autonomia, rispetto. Parole che avevano preso forma nella storia recente che mi è stata raccontata.

La memoria delle due resistenze: 2018 e 2023

Chi conosce davvero Suwayda sa che la sua attuale posizione affonda le radici in una memoria collettiva recente, forgiata in due particolari (tra i tanti) momenti di resistenza che ne hanno definito l’identità. Il primo, tragico ed eroico, è il massacro del luglio 2018, quando oltre 200 civili furono uccisi in un attacco coordinato dell’ISIS contro i villaggi drusi della provincia. Le autorità centrali rimasero inerti, ma la popolazione locale – armata solo di ciò che aveva – riuscì a respingere i miliziani e a difendere le proprie comunità.

Fu un trauma, ma anche una rivelazione: lo Stato non avrebbe protetto Suwayda. La difesa sarebbe dipesa solo dalla solidarietà interna. Il contratto sociale era spezzato, l’illusione della sicurezza garantita dallo Stato si frantumò sotto il peso delle bare.

Souhayla Saab lo racconta bene nel suo libro “Qurban Qatrat Alma’a (il sacrificio per una goccia d’acua) e ricorda “il Regime di Assad ha facilitato l’attacco dell’Isis non solo per terrrizzare la popolazione, ma con questa azione ha cercato con insistenza di far inserire i miliziani islamisti nelle città orientali del governatorato cosi da avere una scusa per l’ingresso armato del regime in seguito”.  L’attacco del 2018 non fu soltanto l’opera di un gruppo jihadista in cerca di preda. Fu anche il ricorso chirurgico al terrore come strumento politico, come già accaduto in altre aree della Siria. Il regime sapeva che il caos poteva essere un alleato silenzioso, utile tanto per la politica interna quanto come leva geopolitica. Lasciare – o persino facilitare – l’azione dell’ISIS in zone “ribelli” o potenzialmente ostili era una strategia di controllo indiretto: divide et impera. Dove il dissenso cresceva, dove la voce della libertà minacciava l’assolutismo centralista, lì il mostro veniva lasciato agire. La paura diventava strumento di paralisi, utile a spegnere sul nascere ogni velleità di rivolta. Nel caso di Suwayda, la “punizione” arrivò proprio mentre montavano tensioni con il regime, segnali di autonomia e richieste di dignità. L’ISIS fu la frusta di un potere invisibile: il terrore funzionale al mantenimento dello status quo. Il messaggio era chiaro: senza lo Stato siete in balia delle bestie. Ma quel messaggio non attecchì. Suwayda non dimenticò. Il trauma divenne fermento, la paura si tramutò in memoria resistente. La lezione, crudele ma essenziale, fu chiara: la salvezza sarebbe venuta solo dall’interno. Dai legami comunitari, dalla solidarietà tra villaggi, dalla consapevolezza che l’autonomia era una necessità.

Così, quando nel 2023 le proteste tornarono a infiammare le piazze, la memoria del 2018 fu il carburante morale. Non c’erano più illusioni. Non si trattava di sovversione, ma di sopravvivenza dell’identità. Le voci che chiedevano riforme, giustizia, dignità non nascevano dal nulla: erano il frutto di una storia di tradimenti e orgoglio. Tutto iniziò nell’agosto 2023, con proteste spontanee in Piazza al-Karama, animate da giovani, donne e anziani, uniti da una sola richiesta: dignità. Il grido “al-shaab yurid isqat al-nizam” (il popolo vuole la caduta del regime) risuonò anche qui, ma con un tono proprio: meno ideologico, più radicato. Non si chiedeva solo la fine di Assad, ma un nuovo contratto sociale, in cui Suwayda non fosse più periferia ignorata e marginalizzata, ma centro di valori democratici e comunitari. Le manifestazioni si moltiplicarono nonostante le pressioni, attirando l’attenzione nazionale e internazionale.

Oggi, queste due memorie vivono insieme nella coscienza della città. Il ricordo della resistenza armata e quello della protesta civile si fondono in una sola parola: autodeterminazione. Per molti, Suwayda non è solo un territorio: è una coscienza vigile, che ha imparato a difendersi senza diventare brutale, a protestare senza cedere alla disperazione. “La gente di Suwayda non si percepisce come sconfitta, ma come protagonista della transizione, con il diritto di determinare il proprio futuro, scegliere i propri rappresentanti e difendere il proprio ruolo nella nuova Siria”, ricorda Mazen Ezzi.

Già dal 2014 Suwayda aveva sperimentato forme di auto-organizzazione, scegliendo una posizione autonoma rispetto al conflitto. I giovani si erano rifiutati di arruolarsi nell’esercito del regime, trasformando la provincia in una sorta di prigione a cielo aperto per i renitenti alla leva, impossibilitati a oltrepassare i confini del governatorato ma protetti da fazioni armate locali. Fu un lento isolamento, una forma di mobbing istituzionale. Eppure, in quel silenzio forzato cominciarono a emergere segnali. Piccole manifestazioni spezzavano il torpore imposto. Quelle proteste, inizialmente marginali, divennero onde crescenti: nel 2020, poi ancora nel 2021, con manifestazioni sempre più partecipate. Il regime tentò la carta del ricatto, accumulando forze militari nella base di Kholkholeh e intorno alla città, cercando di spaccare, infiltrare, screditare il movimento. Ma Suwayda rispose con una compattezza disarmante: ogni venerdì, per nove mesi consecutivi, le piazze si riempirono. Le donne furono protagoniste: nelle strade, nei comitati organizzativi, nelle dichiarazioni pubbliche, nei media. Mai silenziose, sempre presenti. Il movimento restò coerente, determinato, aperto. Chiese l’attuazione della Risoluzione ONU 2254 e ribadì: “Non vogliamo combattere, ma nemmeno inginocchiarci. Vogliamo vivere liberi, in una Siria per tutti”.

La spiritualità drusa come bussola politica

La rivoluzione pacifica che infiamma Suwayda non è solo un atto politico: è un’espressione profonda dell’identità drusa, dove spiritualità e comunità si fondono per dare forma a una resistenza coerente, non violenta, ma determinata.  Al cuore di questa resilienza collettiva c’è la spiritualità drusa, vissuta non come dogma ma come etica quotidiana. La religione drusa non è fatta di prediche o proselitismo, non cerca conversioni né visibilità, ma vive tra le persone. È una religione che si tramanda nel silenzio e nella discrezione che si traduce in una pratica civica visibile e potente.

A Suwayda, la connessione con la religione non è soltanto un insieme di credenze esoteriche, ma innesta nella vita collettiva principi che plasmano comportamenti, relazioni sociali e reazioni comunitarie. La religione drusa, pur essendo discreta, permea ogni gesto: dal rispetto per gli anziani alle tradizioni trasmesse sotto gli alberi di gelso, dalle pratiche di sobrietà alla memoria orale che rafforza l’identità.

In questo intreccio di spiritualità e coesione si inserisce la faza‘a il cuore pulsante di una solidarietà istintiva e immediata che affonda le radici nel principio islamico del Ta’awn, attraverso il quale i membri della comunità sono tenuti ad aiutarsi, a proteggersi e a non tradirsi. Questo si traduce a Suwayda in un comportamento sociale altamente coeso, dove la fiducia e la collaborazione tra famiglie, vicini, e clan è la norma. Durante le proteste, questo principio si è concretizzato nella capacità di mantenere un fronte unitario e di sostenere i più vulnerabili (come i detenuti, le famiglie colpite dalla repressione, ecc.), senza frammentazioni o derive settarie. Un dovere morale, parte integrante del loro esser drusi come quando è accaduto che lo studente Danny Obaid è stato arrestato: senza ricorrere alla violenza, l’intera collettività si è attivata per il suo rilascio, manifestando un modello di resistenza civile che fonda sulla centralità della comunità e la lealtà reciproca. Questa solidarietà non dipende da legami di sangue, ma da vincoli etici che coinvolgono tutti, famiglie, vicini, clan, anziani, e che creano un fronte compatto contro divisioni, infiltrazioni o tentativi di ricatto.

Allo stesso modo, il drusismo enfatizza la saggezza degli anziani e la loro funzione di guida: grazie anche alla loro autorevolezza, il movimento di Suwayda è riuscito a mantenere unità, coerenza e resistenza di fronte alle strategie del regime. La chiave che declina il percorso di mobilitazione resta la dignità che è forse il valore cardine: la parola karama ha dato nome a Piazza al-Karama, simbolo di una scelta di libertà morale che non si piega né si sottomette, ma non scivola nemmeno nell’odio o nell’arroganza. Questa religione “invisibile” — come la definiscono gli studiosi — ha consentito alla comunità di Suwayda di restare unita attraverso la resilienza silenziosa, affinando una forma di lotta coordinata e continuativa nel tempo. Lo Sheikh Hikmat al‑Hijri ha incarnato questa coesione: non un leader politico, ma una guida morale che ha sostenuto le manifestazioni civili e rivendicato uno Stato plurale, decentrato, inclusivo, lontano da logiche confessionali. Il risultato è una rivoluzione che non mira al potere, ma alla libertà, una rivoluzione che non si spegne perché alimentata ogni giorno da un senso etico condiviso, da una appartenenza profonda e da una capacità inedita di essere uno per tutti, una grammatica del dissenso che ha rappresentato una bussola in un tempo disorientato, trasformando una spiritualità riservata in una forza pubblica, comunitaria, partecipata. La rivoluzione di Suwayda non chiede altro che vivere liberi, “in una Siria per tutti” con il linguaggio antico della dignità e dell’appartenenza: perché per i drusi, il senso della fede non è separato dal senso del vivere insieme. E oggi, quella fede silenziosa si è fatta voce collettiva.

*Attivista dei diritti della comunità drusa ed esperta di Siria

L’articolo SIRIA. Suwayda, tra pietra e resistenza: viaggio in una città che non si piega (Parte 1) proviene da Pagine Esteri.