di Michele Giorgio*
(nella foto di Michele Giorgio, a destra Musab Abu Toha con il suo amico Shady)
Pagine Esteri, 20 novembre 2024 – Gaza un anno dopo. Il 19 novembre del 2023, Musab Abu Toha si ritrovò in manette mentre dalla sua città, Beit Lahiya nel nord, assieme alla moglie e ai figli, andava al valico di Rafah con l’Egitto. In tasca custodiva un visto d’ingresso negli Stati uniti. Fu interrogato – e picchiato, raccontò – dai soldati israeliani che avevano invaso Gaza perché «tutti i palestinesi sono considerati dei miliziani di Hamas». Due giorni dopo fu rilasciato, grazie anche al clamore che la sua detenzione aveva fatto nelle redazioni di importanti giornali stranieri, a cominciare dal New Yorker, con i quali collaborava. Riuscì a raggiungere la sua famiglia nel Sinai.
L’amore per la lettura e i libri è nel Dna della famiglia Abu Toha. Nel 2017, con l’aiuto del fratello Hamza, insegnante di letteratura araba, Musab ha aperto a Beit Lahiya la prima biblioteca con circa 5mila testi in lingua inglese, grazie a donazioni e libri giunti da ogni parte del mondo, Italia inclusa. Quindi ha dato sfogo al suo talento letterario ottenendo diversi premi, tra cui l’American Book Award. Oggi tiene corsi all’Università americana del Cairo. Dietro si è lasciato l’amata Gaza teatro dei suoi racconti dove non sa quando e se potrà mai tornare. Gli mancano i ragazzi che andavano ad ascoltarlo nelle serate organizzate dalla Gaza Poets Society: 32 aspiranti poeti uniti nel promuovere la letteratura araba e internazionale nella Striscia.
Suo fratello Hamza invece è rimasto a Gaza e di lui non si hanno notizie da diversi giorni, da quando l’esercito israeliano ha circondato Beit Lahiya durante la violenta offensiva, ancora in corso, che ha lanciato contro il nord della Striscia. Con ogni probabilità Hamza e i suoi familiari sono stati costretti ad andare verso sud, come hanno dovuto fare almeno 200mila palestinesi di Jabaliya, Beit Lahiya, Beit Hanoun per ordine delle forze armate israeliane e per sfuggire ai bombardamenti. Fino a qualche settimana fa, Hamza tornava alla sua abitazione distrutta lo scorso febbraio dalle bombe. Scavava per tentare di recuperare alcuni dei circa 20mila testi in lingua araba – romanzi e saggi – che aveva raccolto in 20 anni e che custodiva sugli scaffali montati ovunque: in cucina, nei corridoi, in camera da letto e nella stanza dei bambini. Raccontava di voler allargare la casa per accogliere più libri. Ogni anno, trascorreva l’estate al Cairo, portando con sé i risparmi per comprare altri libri: li imballava e li spediva via terra, poi tornava a Gaza e aspettava paziente il loro arrivo. Una bomba ha mandato in frantumi tutto, a cominciare dai suoi sogni. «È come mi avessero ucciso dei figli, quei libri erano il mio paradiso. I libri e le biblioteche sono eterni nemici di ogni oppressione perché creano conoscenza, formano le generazioni, scolpiscono la cultura di un popolo. Vogliono privarci di tutto ciò, possono distruggere i libri ma non la conoscenza che abbiamo acquisito, quella resta con noi per sempre», disse Hamza ai tanti che andarono a rincuorarlo dopo il raid aereo. Quei tanti attendono sue notizie.
Gaza ha bisogno di pane, acqua, di generi prima necessità, di tutto. La sua gente però vuole anche ricostruire le università bombardate o fatte saltare in aria dai soldati con l’esplosivo. E invoca protezione i suoi talenti artistici, i suoi giovani amanti della cultura, i suoi docenti, i suoi intellettuali. Tanti di loro sono morti in 13 mesi, uccisi da bombe e cannonate, alcuni da malattie o ferite divenute incurabili perché la sanità nella Striscia di fatto non esiste più. Sono stati uccisi il poeta Refaat Alareer, la pittrice Heba Zaqout, la poetessa Heba Abu Nada, il romanziere Omar Abu Shawish, la scrittrice Halima Al Kahlout, il regista Youssef Dawasi e altri ancora.
Elham Al Astal, 20 anni, non ha più il suo studio a Khan Yunis, è sfollata più volte e i suoi dipinti, almeno quelli che è riuscita a salvare, quando può li espone in strada. Prima del 7 ottobre 2023 i suoi pennelli coloravano la tela con la gioia della vita. Oggi solo con la devastazione di Gaza. L’ultimo dipinto si chiama «Disastro e sofferenza». Mostra Badr Dahlan, un palestinese arrestato nei primi mesi dell’offensiva contro Gaza, e lo stato di shock in cui fu trovato quando tornò libero dopo mesi di detenzione. «I suoi occhi sbarrati erano una sentenza di condanna del mondo intero», racconta Elham Al Astal al giornale online UltraPalestine. Il dipinto al quale tiene di più è «L’ultimo bacio», quello che diede sua madre al padre ammalato grave e che si è spento poco alla volta per mancanza di medicine. «Voglio continuare raccontare Gaza con i miei pennelli» promette Elham «non trovo quasi nulla, mancano i colori, gli strumenti, la tela, la carta. Ma ci riuscirò». Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre da Il Manifesto
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