di Eliana Riva – 

Pagine Esteri, 12 aprile 2024. Il 10 febbraio 2024 a Gaza City il corpo di Hind Rajab, una bambina palestinese di 6 anni, è stato ritrovato insieme a quelli dei suoi zii e dei suoi 3 cugini. Poco distante dall’automobile in cui giacevano, la carcassa dell’ambulanza che doveva salvarla, dopo ore di telefonate disperate tra la piccola e la Mezzaluna Rossa palestinese.

Il 29 febbraio 2024 lungo Al Rasheed street, a sud di Gaza City, più di 100 palestinesi sono stati uccisi mentre erano in coda per ricevere gli aiuti umanitari.

Il 15 dicembre 2023 il fotoreporter palestinese Mustafa Haruf, dell’agenzia turca Andolu, è stato brutalmente aggredito dalla polizia israeliana che lo ha immobilizzato e colpito ripetutamente con calci alla faccia e alla testa.

L’8 dicembre 2023 nel campo profughi di al-Faraa, nella Cisgiordania occupata, l’esecuzione di due giovani palestinesi disarmati da parte dei militari israeliani è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza.

Il 2 aprile 2024 un bombardamento dell’esercito israeliano ha colpito nella Striscia tre veicoli della ONG ispano-americana World Central Kitchen che trasportavano aiuti umanitari, uccidendo 7 persone delle quali 6 straniere: tre di nazionalità inglese, una con doppio passaporto statunitense-canadese, una polacca, una australiana.

In tutti i casi fin qui citati le autorità israeliane hanno annunciato che avrebbero aperto un’indagine, i fatti hanno avuto un’eco internazionale e per tutti esiste una documentazione audio o video che testimoni completamente o in parte l’accaduto.

 

1.HIND RAJAB, BAMBINA PALESTINESE

Una storia straziante con l’epilogo peggiore che si potesse immaginare. Dopo 12 giorni dalla sua disperata richiesta telefonica di aiuto, la piccola Hind di 6 anni appena, è stata ritrovata morta all’interno dell’automobile sulla quale viaggiava insieme alla sua famiglia. Lunedì 29 gennaio l’esercito israeliano aveva ordinato agli abitanti di evacuare la zona Ovest di Gaza City. La sua famiglia stava tentando di raggiungere l’ospedale Ahli, nella speranza di trovarvi rifugio. I fratelli maggiori e i genitori si spostavano a piedi e Hind utilizzava l’automobile degli zii insieme ai suoi 3 cugini.

Mentre procedeva in direzione sud, l’automobile si è trovata circondata dai carri armati. Lo zio di Hind ha provato a fermarsi in una stazione di servizio, sperando di essere al sicuro. Ma è stato inutile.

Sua figlia Layan, di 15 anni, ha chiamato i soccorsi. I suoi genitori e i suoi fratelli erano già morti. La telefonata è stata registrata e diffusa dalla Mezzaluna Rossa palestinese: chiedeva aiuto, i carri armati israeliani avevano circondato l’automobile. Tra le urla si sentono gli spari e poi più nulla.

Hind Rajab, 6 anni, uccisa a Gaza

Quando gli operatori hanno richiamato a rispondere è stata Hind. Anche sua cugina era stata uccisa, la bambina aveva paura e supplicava di essere salvata. Ha passato ore al telefono con i soccorritori in attesa che riuscissero a coordinare con l’esercito israeliano il percorso che avrebbe dovuto compiere l’ambulanza, che alla fine è partita. Dopo pochi minuti, però, la centrale operativa ha perso i contatti con Hind e con gli operatori sanitari. 12 giorni di disperati appelli caduti nel vuoto. L’esercito israeliano controllava la zona e gli abitanti non potevano farvi ritorno ma i militari non rispondevano alle richieste di informazioni del servizio di soccorso palestinese.

I resti dell’ambulanza inviata in soccorso della bambina palestinese Hind Rajab

All’alba del 10 febbraio le truppe israeliane si sono ritirate e solo in quel momento i genitori di Hind hanno potuto raggiungere la pompa di benzina, dove hanno visto realizzarsi i loro più terribili timori: tutti morti, Hind, gli zii, i cugini, i corpi ormai in decomposizione.

A pochi metri da lì i resti dell’ambulanza bombardata con i cadaveri carbonizzati di Yousef Zeino e Ahmed Madhoun, i due paramedici volontari che hanno tentato di salvare la bambina. La Mezzaluna ha accusato i soldati di aver deliberatamente attaccato il mezzo di soccorso nonostante sapessero del suo arrivo.

Yousef Zeino e Ahmed Madhoun, i due volontari della Mezzaluna Rossa uccisi mentre provavano a salvare Hind, di 6 anni

Già prima del ritrovamento la storia di Hind aveva fatto il giro del mondo mentre gli appelli internazionali si erano moltiplicati giorno dopo giorno. Quando testate giornalistiche internazionali come la BBC cominciarono a fare domande all’esercito israeliano sulle operazioni nella zona in cui si trovava l’automobile, la risposta delle autorità fu “stiamo controllando”. Nessun’altra dichiarazione fino al disimpegno delle truppe e, dunque, alla scoperta dei cadaveri.

Diversi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno chiesto a Israele un’inchiesta sulle morti. Così, dopo circa 15 giorni, Tel Aviv ne rese pubblico l’esito: “Da un’indagine preliminare condotta, sembra che le truppe non fossero presenti vicino al veicolo o all’interno dell’area di fuoco in cui è stata trovata la bambina”. Nonostante la Mezzaluna abbia registrato le manovre di coordinamento con l’esercito durate ore, fino a quando i militari stessi hanno dato il via libera all’operazione di soccorso, i portavoce militari hanno dichiarato che “Data la mancanza di forze nella zona, non c’era bisogno di un coordinamento per i movimenti dell’ambulanza o di qualsiasi altro veicolo che potesse portar via la bambina”.  Il caso, hanno poi detto, sarebbe stato consegnato al General Staff Fact-Finding Assessment Mechanism. Si tratta di un organismo militare guidato da un maggiore generale dell’esercito che Israele definisce “indipendente”.

Lo stato in cui è stata ritrovata l’automobile su cui viaggiava Hind insieme ai suoi zii e ai suoi tre cugini

 

2. IL “MASSACRO DELLA FARINA” A GAZA

Un’indagine pubblicata mercoledì 10 aprile dalla CNN rivela che la versione israeliana del massacro avvenuto lungo Al Rasheed street, al sud-ovest di Gaza City, non regge. La cronologia degli eventi non coincide con la ricostruzione che i giornalisti dell’emittente televisiva statunitense hanno effettuato incrociando testimonianze dei sopravvissuti, video e materiale fotografico fornito dallo stesso esercito. La prima versione dei vertici israeliani fu che i propri militari non erano coinvolti in alcun modo nell’accaduto. La seconda che avevano sparato, ma solo in aria, colpi di avvertimento. Erano le 4.30 circa di mattina del 29 febbraio quando i camion degli aiuti sono arrivati. Centinaia di palestinesi affamati li stavano attendendo da ore: da più di un mese Israele non permetteva ai mezzi umanitari di raggiungere quella zona della Striscia. Nei video dei sopravvissuti si sentono gli spari e le persone urlare che gli israeliani hanno aperto il fuoco sulla folla. Alle prime luci dell’alba uno dei camion utilizzato per trasportare la farina ha raggiunto l’ospedale con decine di feriti a bordo. Le vittime sono state più di 100 e più di 700 i feriti.

Le Nazioni Unite hanno definito ciò che è accaduto il 29 febbraio un “modello di attacchi israeliani contro i civili palestinesi in cerca di aiuto”. Prima che il “massacro della farina” avvenisse l’ONU aveva registrato già più di 14 attacchi del genere dalla metà di gennaio fino alla fine di febbraio: spari, bombardamenti e cecchini avevano colpito più volte le persone radunate per ricevere aiuti così come i mezzi che li trasportavano.

Francia, Germania e altri Paesi europei chiesero un’inchiesta sull’accaduto. Dopo una settimana, l’8 marzo, Israele fece sapere che l’indagine interna stabiliva che i suoi soldati avevano notato “persone sospette” tra la folla e avevano dunque sparato colpi di avvertimento per disperdere le persone e colpire poi solo coloro che ritenevano rappresentassero una minaccia. La CNN ha rivelato invece, con il supporto di tecnici e analisi balistiche, che l’esercito ha sparato direttamente sulla folla, ad altezza d’uomo e con armi automatiche, prima ancora che i camion superassero il checkpoint. L’esercito ha diffuso un video ripreso da uno dei suoi droni, che mostra la folla dall’alto e poi i morti i corpi a terra ma la registrazione è stata tagliata e rimontata eliminando fotogrammi di fondamentale importanza. I giornalisti hanno chiesto il video completo ma l’esercito si è opposto e ha risposto che il meccanismo di accertamento e valutazione dello stato maggiore (General Staff Fact-Finding Assessment Mechanism) avrebbe indagato.

 

3. PALESTINESI GIUSTIZIATI IN CISGIORDANIA

L’8 dicembre 2023 nel campo profughi di Faraa, nella Cisgiordania occupata, le telecamere di sicurezza riprendono un gruppo di giovani palestinesi in uno slargo. D’improvviso arrivano le camionette dei militari israeliani, tutti fuggono ma il 25enne Rami Jundob si attarda e viene colpito da lontano. È steso a terra, sanguinante. La camionetta si avvicina, un militare prende l’arma e spara: la pantofola vola. Il mezzo si avvicina ancora e dallo sportello aperto spunta un’arma e poi due che esplodono diversi colpi in sequenza ravvicinata, fino a quando Rami Jundob smette di muoversi. Morirà il giorno seguente per le ferite riportate. Da un’altra angolazione una seconda telecamera di sicurezza riprende Tahar Shahin, di 36 anni, che dopo il primo sparo prova a ripararsi sotto il cofano di un furgoncino. Dopo aver finito Rami Jundob i militari accostano il mezzo corazzato al furgoncino bianco. Tahar neanche li guarda, ha il volto schiacciato sull’asfalto. Da una finestra un cellulare riprende la scena e registra il suono dello sparo. Muore sul colpo. La camionetta va via.

Il Centro di Informazione Israeliano per i diritti umani nei Territori palestinesi Occupati, B’Tselem, diffonde i video e accusa Israele di aver commesso delle esecuzioni a distanza ravvicinata, di aver ucciso un palestinese ferito e immobilizzato e un altro disarmato che si nascondeva.

 

Original security camera footage obtained by B’Tselem captures two short-range executions of Palestinians in al-Far’ah R.C. on 8 December 2023. pic.twitter.com/gyDztMXIww

— B’Tselem בצלם بتسيلم (@btselem) December 15, 2023

I video fanno il giro del mondo e Israele annuncia di aver aperto un’inchiesta “con il sospetto che durante l’incidente siano stati sparati colpi non in conformità con la legge”. Ad oggi non ci sono notizie sugli esiti dell’inchiesta e non sono stati emessi provvedimenti disciplinari nei confronti dei militari.

Almeno 507 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania nel 2023, tra cui almeno 81 minori, in quello che è diventato l’anno più letale per i palestinesi da quando l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha iniziato a registrare le vittime, nel 2005.

 

4. GIORNALISTA PALESTINESE AGGREDITO A GERUSALEMME

Il 15 dicembre 2023 il foto-giornalista palestinese Mustafa Haruf, dell’agenzia turca Andolu, si trovava insieme ad altri colleghi nel quartiere Wadi Joz di Gerusalemme Est per seguire le preghiere del venerdì: dall’inizio della guerra numerosi fedeli musulmani a cui viene vietato l’ingresso alla Spianata delle Moschee si radunano per pregare in strada. Mustafa Haruf è nato in Algeria ma vive a Geruselemme est insieme alla sua famiglia dall’età di 12 anni ed è molto conosciuto in città. Quando un agente della polizia di frontiera gli chiede di allontanarsi dal sito, Haruf risponde che si era spostato lì su indicazioni di un altro poliziotto. Dopo uno scambio di battute l’agente che si stava allontanando dal giornalista torna verso di lui a passo svelto e lo colpisce alla nuca con la canna del fucile. Dopo avergli puntato l’arma contro, un poliziotto lo tira a terra e lo blocca mentre l’altro lo colpisce per 9 volte con violenti calci sul volto. I colleghi degli agenti, intanto, tengono lontani gli altri giornalisti e le persone presenti che riprendono la scena con i cellulari. A seguire altri calci e colpi con il fucile. Trasferito all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme Est, Haruf riporta tagli profondi alla testa e al viso.

Anche in questo caso il video è finito in rete, suscitando sdegno in vari Paesi e critiche pesantissime da parte delle più importanti agenzie di stampa del mondo. Anche l‘Unione dei giornalisti israeliani ha condannato il pestaggio, specificando che si trattava del 37esimo attacco contro giornalisti a Gerusalemme dall’inizio della guerra.

I due agenti coinvolti sono stati sospesi su promessa di un’inchieste, tra le proteste del ministro israeliano della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che controlla la polizia di frontiera e che ha espresso loro il suo pieno e incondizionato sostegno. Il ministro di estrema destra è andato personalmente a casa di uno degli agenti per dimostrargli il suo supporto e ha dichiarato che “gli agenti non dovrebbero essere processati per ciò che è inevitabile che facciano. Ho tenuto la mano dell’ufficiale di polizia e gli ho detto che mi sarei adoperato affinché tornasse in servizio attivo il prima possibile”. Promessa mantenuta: dopo 9 giorni lo stesso Ben Gvir ha reintegrato i due agenti che non hanno subito procedimenti disciplinari.

 

5. ATTACCO AGLI OPERATORI UMANITARI STRANIERI

Sette operatori umanitari sono stati uccisi nella notte del 2 aprile da un chirurgico attacco missilistico israeliano con droni che ha colpito il convoglio della World Central Kitchen che si occupa della distribuzione di cibo e pasti alla popolazione civile di Gaza che sta morendo di fame. A parte l’autista, palestinese, le vittime questa volta sono tutte straniere: tre di nazionalità inglese, uno con doppio passaporto statunitense-canadese, uno polacco, uno australiano.

I passaporti di alcuni degli operatori umanitari della WCK uccisi da Israele a Gaza

Il convoglio di 3 autovetture che aveva coordinato il proprio percorso con i militari israeliani, è stato colpito dopo che il gruppo identificabile con il logo della WCK, aveva consegnato 100 tonnellate di aiuti alimentari a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Un attacco mirato che non ha lasciato scampo: il secondo veicolo è stato colpito a 800 metri di distanza dal primo. E il terzo a 1 chilometro e 600 metri dal secondo, con estrema precisione.

Prima di quest’ultimo attacco, secondo le Nazioni Unite, erano già stati 196 gli operatori umanitari uccisi a Gaza dal 7 ottobre. Quasi tre volte il bilancio delle vittime registrate in un anno in qualsiasi singolo conflitto mondiale.

Tutti i Paesi dai quali provenivano le persone uccise hanno usato parole forti di condanna per l’operazione militare. Gli Stati Uniti per primi hanno chiesto a gran voce un’inchiesta, la World Central Kitchen ha fatto dichiarazioni pesanti, sottolineando che l’attacco non è stato un errore, al contrario di ciò che il governo Netanyahu ha provato dal primo minuto a comunicare. Il presidente USA Joe Biden si è detto “oltraggiato”, il governo polacco ha fatto sapere che la solidarietà a Israele è messa a dura prova, ll primo ministro inglese Rishi Sunak ha detto a Netanyahu che “troppi operatori umanitari e civili ordinari hanno perso la vita a Gaza e la situazione è sempre più intollerabile”, l’UE ha definito “spaventoso”. Israele ha promesso di indagare. Ma non solo.

A differenza di tutti i casi citati in precedenza, le più alte cariche politiche e dell’esercito hanno immediatamente presentato le proprie scuse: il presidente Herzog si è scusato per l’accaduto, il premier Netanyahu ha parlato di un “tragico errore”, cose che però “in guerra accadono”. Il portavoce dell’esercito, Daniel Hagari, ha dichiarato “È una tragedia. Un evento serio di cui siamo responsabili e non sarebbe dovuto accadere e ci assicureremo che non accada di nuovo”. Causa di tutto sarebbe stata un’identificazione errata, dicono i vertici, per cui una delle persone a bordo sarebbe stata scambiata per un miliziano di Hamas armato. Nessuno sul convoglio portava con sé un’arma.

Uno dei veicoli della World Central Kitchen colpito dall’attacco drone israeliano

L’inchiesta, affidata al generale in pensione Yoav Har-Even, ha rivelato in pochissime ore e senza ombra di dubbio le responsabilità dei militari: un generale e un colonnello sono stati licenziati mentre altri tre militari hanno subito un “rimprovero”. I risultati dell’indagine sono stati consegnati all’avvocato generale dell’esercito, che deciderà se gli ufficiali o chiunque altro coinvolto debbano ricevere ulteriori punizioni o essere penalmente perseguiti.

Ma la WCK non ha mostrato grande soddisfazione: “Chiediamo la creazione di una commissione indipendente per indagare sulle uccisioni dei nostri colleghi WCK. L’esercito non può indagare in modo credibile sui propri errori a Gaza“. Il fondatore della ONG, lo chef José Andrés ha dichiarato: “Il governo israeliano deve fermare queste uccisioni indiscriminate. Deve smettere di limitare gli aiuti umanitari, smettere di uccidere civili e operatori umanitari e smettere di usare il cibo come arma”.

Sono molto rari i casi in cui Israele persegue i propri militari, i quali ancora meno frequentemente ricevono punizioni gravi. Come quello eccezionale che ha portato alla condanna, nel 2017, di Elor Azaria, un medico militare di 21 anni. Era stato filmato l’anno precedente mentre giustiziava un palestinese gravemente ferito e incapace di nuocere. Azaria non aveva mostrato pentimento e diversi testimoni dichiararono di avergli sentito dire che la sua vittima “meritava di morire”.

Importanti politici israeliani, tra i quali Benjamin Netanyahu, e Naftali Bennet chiesero la grazie per Azaria, che venne condannato a 18 mesi ma ne scontò solo 9.

“La condanna che ha ricevuto è inferiore a quella che ottiene un bambino palestinese per aver lanciato pietre”, dichiarò la famiglia della vittima Abdul Fatah al-Sharif.

L’intenso interesse per il caso è stato alimentato in parte dalla scarsità di procedimenti giudiziari contro il personale di servizio israeliano accusato di aver commesso violenza contro i palestinesi. Molto diversa è la situazione per i palestinesi, che vengono perseguiti e puniti all’interno di un sistema giudiziario con leggi e regole completamente diverse.

Nel 2016 l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem pubblicò un rapporto intitolato The Occupation’s Fig Leaf (“La foglia di fico dell’occupazione”), nel quale annunciava la decisione di smettere di portare denunce di soprusi sui palestinesi dinanzi alle corti israeliane, perché serviva solamente a “dare legittimità al regime di occupazione”, che quasi mai però arrivava a punire i suoi soldati. “Su un totale di 739 casi documentatiscrive B’Tselem – in cui in Cisgiordania i soldati hanno ucciso, ferito, picchiato o usato i palestinesi come scudi umani o danneggiato proprietà palestinesi, solamente 25 volte sono state presentate accuse.

La situazione cambia drasticamente, tuttavia, quando le vittime non sono palestinesi e quando i governi e l’opinione pubblica occidentale reclamano con maggiore decisione indagini, colpevoli e punizioni.

 






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