di Patrizia Zanelli* – 

Pagine Esteri, 4 aprile 2024. Fleischmann spiega che, in Palestina, discorsi femministi cominciarono a comparire sui giornali arabi verso il 1890, quando la rivoluzione educativa iniziata a metà ‘800 aveva determinato importanti cambiamenti sociali nel paese che, tuttavia, era ancora povero, poiché privo di risorse minerarie, nonché conservatore. Questo conservatorismo era dovuto sia alle istituzioni religiose e ai notabili locali sia alla volontà del Sultano di mantenere lo status quo nell’Impero.

Erano state prima le famiglie moderniste palestinesi cristiane e poco dopo quelle musulmane a permettere alle proprie figlie – e ai propri figli – di frequentare le scuole missionarie moderne occidentali impiantate in Palestina, dove, per via della povertà, non esistevano università. Essendo le chiese locali conservatrici, molti giovani di rito greco-ortodosso desiderosi di libertà si convertirono all’anglicanismo, scatenando crisi familiari a non finire, tipiche del divario generazionale che caratterizzava le società arabe durante la Nahḍa.  Benché considerassero l’istruzione femminile una necessità della vita moderna, le famiglie moderniste di tutte le comunità religiose permettevano solo ai figli maschi di andare a studiare all’università a Beirut, al Cairo o a Istanbul. Abituate sin da bambine a uscire di casa per andare a scuola, le giovani dell’élite urbana non erano disposte né costrette a vivere segregate; la loro presenza, in maggioranza a volto scoperto, in pubblico era ormai normale; indossavano cappellini e un abbigliamento sobrio all’europea; e per le occasioni speciali, talvolta, il tradizionale thobe ricamato palestinese; alcune musulmane non abbandonarono subito il velo. Tutte, però, sapevano che, a differenza dei loro fratelli e altri ragazzi della loro generazione, non potevano studiare all’università; fu anche per questa discriminazione di genere che cominciarono a maturare una consapevolezza femminista; in diversi casi studiavano in un istituto di formazione pedagogica.

Grazie alla scolarizzazione di massa lanciata dalla riforma ottomana e alla presenza delle scuole missionarie russe nei villaggi della Galilea, inoltre, molte giovani del proletariato rurale e urbano erano ormai istruite; quindi, potevano svolgere nuove professioni, come per esempio le impiegate negli uffici municipali, e aiutare economicamente le proprie famiglie. La rivoluzione educativa stava generando gradualmente in Palestina tre novità parallele: la mobilità sociale, la dissoluzione della dicotomia città/campagna e un lento smantellamento della segregazione di genere.

Intanto, spiega Masalha, si era registrata nel paese una forte crescita demografica, dovuta a una fioritura di strutture sanitarie moderne pubbliche, fondate dall’amministrazione ottomana, e private; da qui un notevole calo della mortalità infantile, l’aumento del numero di bambine e bambini da istruire, e della richiesta di docenti, medici e infermiere. Nei centri urbani teatro delle narrazioni evangeliche – Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e Tiberiade – i missionari europei e americani crearono inoltre ospedali, alcuni destinati alla formazione medica e infermieristica, e ospizi per le cure sia dei pellegrini sia della popolazione locale. Quindi, anche la modernizzazione della sanità offrì nuove opportunità di lavoro per la società palestinese, donne incluse.

Come spiega Salim Tamari [14], infatti, è storicamente dimostrato che intorno al 1895, infermiere palestinesi e straniere lavoravano nel Muristan, l’ospedale pubblico di Gerusalemme; venivano assunte tramite la Società Ottomana della Mezzaluna Rossa. Dunque, stava emergendo nella società urbana palestinese un proto-femminismo, di cui è però difficile capire esattamente la genesi, per la già indicata dispersione delle fonti storiche disponibili al riguardo, dovuta alla Nakba, nonché per la rigida censura sulla stampa imposta dalla Porta in Palestina.

Gli scontri di Affula (al-Fūla), avvenuti nel 1884, dopo che il proprietario libanese del villaggio lo aveva venduto all’agenzia sionista, e citati da Fleischmann per rilevare la partecipazione delle contadine alla resistenza esplosa contro la fondazione della colonia, sono significativi soprattutto in termini di diffusione popolare dell’autocoscienza anti-colonialista. Sanbar nota, infatti, che l’opposizione palestinese al sionismo nacque prima dalla pubblicazione, nel 1896, de Lo Stato ebraico di Theodore Herzl (1860-1904). Il rischio di una sostituzione etnica era l’argomento di un dibattito generale sulle pagine dei giornali arabi; uno dei dirigenti che presero iniziative importanti in merito è il gerosolimitano Yusuf Diyā‘ al-Din al-Khalidi (1842-1906), deputato di Gerusalemme al Parlamento ottomano del 1877 e per due mandati sindaco della città, il quale, nel 1889, scrisse al gran rabbino di Francia, Zadok Kahn: “In nome di Dio, lasciate in pace la Palestina”. Sin dal 1891 petizioni simili per richiedere il controllo dell’immigrazione ebraica e l’interdizione delle vendite dei terreni agli immigranti saranno rivolte invano alle autorità di turno. Perciò lo stesso evento di Affula del 1884 è ritenuto emblematico; lo cita infatti anche Masalha, confermando il parere di altri storici, come Rashid Khalidi, Beshara Doumani, Ilan Pappé, Baruch Kimmerling e Joel S. Migdad, che collocano la nascita di un proto-nazionalismo territoriale locale e di una percepita identità nazionale palestinese a fine ‘800, prima della comparsa del sionismo politico (sancita dal congresso di Basilea del 1897). Come già detto, tale percezione era dovuta anzitutto alla massiccia presenza di stranieri occidentali e orientali in Palestina, dove, per via della crescita economica, risiedevano, solo per esempio, immigrati egiziani, libanesi e siriani. In quel contesto, le immigrazioni ebraiche, materializzatesi in colonie sioniste, non generavano nelle menti delle donne e degli uomini palestinesi più di tanto riflessioni sulla questione identitaria bensì seri timori per la loro stessa sopravvivenza nel loro paese.

Pur non essendo famosa, la vera pioniera della Nahḍa femminile palestinese è la scrittrice nazarena cristiana greco-ortodossa Kulthum Odeh (1892-1965), che, in un breve testo autobiografico, dice: “Il mio arrivo in questo mondo è stato accolto dalle lacrime, poiché tutti sanno come gli arabi, quali siamo pure noi, si sentono quando viene annunciata loro la nascita di una femmina, specialmente se questa bambina sfortunata è la quinta delle sue sorelle, e la famiglia non è stata benedetta da un maschietto. Tali sentimenti di odio mi accompagnavano sin dalla tenera età. Non ricordo che mio padre sia mai stato compassionevole con me. La cosa che aumentava l’odio dei miei genitori nei miei confronti è il fatto che pensavano che fossi brutta. Perciò sono cresciuta, evitando di parlare, eludendo gli incontri con persone e concentrandomi solo sulla mia istruzione”.

In questo breve testo autobiografico – uno dei rarissimi della Nahḍa femminile palestinese -, Odeh spiega bene cosa significasse essere una giovane in Palestina e altrove nel mondo arabo all’epoca. Aveva frequentato una scuola a Nazareth e poi l’istituto di formazione pedagogica di Beit Jala, dove uno dei suoi docenti era il già citato letterato Khalil al-Sakakini. Era una studentessa eccellente. Appena diplomata all’età di 16 anni, lei stessa insegnò arabo in una scuola russa a Nazareth. Iniziò inoltre a pubblicare articoli in alcune delle quasi 50 testate palestinesi esistenti all’epoca. A un certo punto, si innamorò del medico russo, Ivan Vasilev, che ricambiava i suoi sentimenti, ma la sua famiglia non voleva che sposasse uno straniero. Quindi, lei e lui andarono a sposarsi a Gerusalemme. Quando rientrarono a Nazareth, non ebbero vita facile; perciò, nel 1914 circa, si trasferirono in Russia. Odeh avrà tre figlie ma, nel 1919, durante la guerra civile seguita alla Rivoluzione d’ottobre, suo marito, allora volontario nell’Armata Rossa, morirà di tifo. Lei continuerà a studiare e, per esigenze economiche, lavorerà come infermiera. Nel 1928, ottenne il dottorato presso l’Università di Leningrado, dove poi insegnò; fondò anche un istituto di studi di dialetti arabi a Mosca. Odeh fu la prima donna del mondo arabo a laurearsi e a diventare un’accademica. L’autrice palestinese condusse una brillante carriera professionale in Russia, ma a livello personale non ebbe mai vita facile. Fu importante come letterata, e per i suoi studi di dialettologia e letteratura araba; era anche un’attivista marxista.

Tornando alla Palestina, agli inizi del ‘900 alcune palestinesi cristiane greco-ortodosse del ceto medio cominciarono a creare associazioni caritatevoli femminili. Appartenendo a una minoranza religiosa, volevano aiutare la loro comunità, sapendo che era poco tutelata dallo Stato ottomano. Questo attivismo sociale, consentiva loro di emanciparsi, di avere una vita pubblica, aiutando bambine bisognose o/e orfane a istruirsi, e, una volta diplomate, inserirsi nel mondo del lavoro ed essere donne emancipate, almeno economicamente. Nella comunità cristiana palestinese esisteva, poi, una vecchia divisione tra la maggioranza greco-ortodossa, considerata più popolare, e la minoranza cattolica più elitaria, poiché più vicina all’Europa. Tamari spiega che, a prescindere dalla fede di appartenenza, le attiviste di questa prima generazione del proto-femminismo erano state ispirate dal volontarismo delle suore missionarie che le avevano educate. Va da sé che, proprio come i loro fratelli, erano state influenzate sin dall’infanzia dalle idee moderniste e nazionaliste degli uomini adulti delle loro famiglie. Non volevano vivere come le loro madri, di solito dalla mentalità più tradizionalista rispetto ai padri che, però, non permettevano alle figlie di svolgere professioni “inadatte” al loro status sociale, come le infermiere o le impiegate del settore pubblico e privato, appartenenti al proletariato urbano. Il passaggio dalla tradizione alla modernità non fu liscio in Palestina né altrove nel mondo arabo, dove il marxismo era – e rimarrà – un’ideologia marginale, specialmente nella sua espressione comunista; Odeh fu una pioniera anche in tal senso.

In breve, le giovani palestinesi del ceto medio – e dell’alta borghesia –, desiderose di un minimo di libertà e indipendenza, avevano più ragioni per fondare associazioni caritatevoli femminili. Dopo la Società Ortodossa di Aiuto ai Poveri, creata ad Acri, nel 1903, ne nacquero altre simili, tra cui una a Giaffa, nel 1910, un’altra a Haifa, nel 1911, e un’altra ancora a Gerusalemme, nel 1919. Le associazioni caritatevoli nate in questa fase erano confessionali, ma non settarie; erano rivolte alle famiglie bisognose, incluse le persone ammalate, di tutte le comunità religiose. Le attiviste erano appunto giovani docenti, perlopiù ancora single.

Tamari spiega l’esperienza di una figura molto interessante, futura leader famosa, la già citata Adele Azar di Giaffa, autrice di un altro dei rarissimi testi autobiografici rappresentativi del femminismo palestinese della Nahḍa; lo scrisse nel 1963, in un quaderno di appunti e nella forma di una lunga lettera per i/le nipoti. Figlia unica, ad appena due anni d’età, i genitori l’avevano mandata a scuola: la Miss Arnot’s Mission School, dove alle alunne veniva insegnata anche educazione fisica. Come già detto, le missionarie delle scuole femminili britanniche erano, però, piene di preconcetti orientalistici nei confronti delle società arabe, che pensavano di dovere “civilizzare”, secondo la loro mentalità eurocentrica, tramite l’istruzione delle bambine. Finite le medie, Adele, che ormai conosceva l’inglese, fu iscritta alla St. Joseph School (sempre a Giaffa), perché imparasse anche il francese. Nel 1899, ancora studentessa, si fidanzò con Afteem Yaqub Azar, che sposerà nel 1901. Le fonti storiche non offrono informazioni sulla professione di suo marito.

Adele Azar è un po’ un caso eccezionale, perché era appunto già sposata, il 15 febbraio 1910, quando divenne la presidente e una delle fondatrici della Società delle Signore Ortodosse, che, nel suo testo, definisce come “la prima organizzazione femminile nazionale a essere stata fondata in Palestina”; nello stesso segmento testuale poi ripete l’aggettivo “nazionale”.  Questa insistenza forse serviva a sottolineare che l’associazione non era settaria e di certo rivela il patriottismo e il linguaggio modernista di Azar e delle altre attiviste che lavoravano per il futuro della loro nazione. Il nazionalismo non era una mera opzione per la società palestinese alle prese con la minaccia sionista e imperialismi vari.

Per avere un’istruzione moderna, le bambine dell’alta borghesia e del ceto medio, cristiane e musulmane, dovevano per forza di cose frequentare le scuole missionarie straniere cattoliche e protestanti, ricevendo un’educazione europea; quindi, non conoscevano la cultura araba. A Gerusalemme molte figlie dell’élite frequentavano la Scuola delle Sorelle di Nostra Signora di Sion, in cui imparavano più che altro economia domestica. Le femministe palestinesi, perciò, volevano realizzare una rivoluzione educativa per le bambine e le ragazze della Palestina.

Azar era, inoltre, stata ispirata da Labiba Jahshan e Zarifa Sarsuq che, nel 1881, avevano fondato a Beirut la tuttora esistente Ecole Zahrat al-Ihsān (Fiore della Carità), che dirigevano insieme nell’ambito della loro associazione femminile che aveva lo stesso nome. In questo istituto scolastico fornivano un’istruzione moderna in materie umanistiche e scientifiche a bambine e ragazze della comunità cristiana ortodossa. Fu la risposta locale libanese alla crescente influenza delle scuole missionarie cattoliche e protestanti straniere in Libano. Divenne poi un modello anche per gli istituti scolastici delle associazioni femminili palestinesi e siriane. Azar lo adottò, infatti, per l’offerta didattica della scuola della Società delle Signore Ortodosse, della quale era la preside; era lei che preparava il programma; lo scriveva nel suo succitato quaderno di appunti. Le lingue insegnate erano l’arabo e l’inglese; le attiviste organizzavano anche corsi di taglio e cucito in un laboratorio allestito appositamente. Ricevevano le risorse finanziarie per le loro attività dalla chiesa e da privati della comunità ortodossa. La vice-preside della scuola era Alexandra Kassab Zarifeh (1897-?), un’attivista per i diritti delle donne, definita la “ribelle” di Giaffa. Per le occasioni speciali, talvolta si vestiva all’ultima moda parigina, considerata osé all’epoca. Aveva studiato alla Ecole Zahrat al-Ihsān di Beirut e iniziato sin da ragazza l’attivismo sociale nella Croce Rossa e nella Mezzaluna Rossa.

Fleischmann spiega che, per le femministe palestinesi di questa prima generazione, il principale elemento identitario era la femminilità; si associavano alle loro corrispettive egiziane, libanesi e siriane, con le quali aderivano allo stesso movimento, la Nahḍa femminile. D’altro canto, loro avevano problemi specifici locali da affrontare: la crisi nazionale provocata dal sionismo oltre alla povertà ancora predominante nel paese, nonostante la recente crescita economica. Alcune erano mogli o sorelle dei teorici della palestinesità, teorie che tutte conoscevano e in cui si identificavano, così come erano vicine al panarabismo; volevano salvaguardare l’arabicità della Palestina, nonché la cultura ecumenica tipica della loro stessa società palestinese. Perciò, non erano settarie sul piano confessionale né esclusiviste per quanto riguarda il nazionalismo; erano cresciute ricevendo svariati stimoli nelle città cosmopolite in cui vivevano e/o studiavano. Bilingue e talvolta poliglotte, le palestinesi avevano gli strumenti necessari per tenersi aggiornate sugli sviluppi della Nahḍa in Egitto (il Cairo era ormai il cuore propulsivo del movimento), in Libano e Siria, e sulla modernità importata dall’Occidente; erano state esposte a modelli femminili anzitutto francesi e inglesi, con cui sapevano interagire culturalmente, rifiutando di essere mere imitatrici delle donne occidentali. Le docenti diplomate a Beit Jala conoscevano, inoltre, le grandi opere della letteratura russa moderna.

In definitiva, le femministe palestinesi di questa prima generazione sia cristiane che musulmane, le quali emergeranno sulla scena pubblica durante la Grande Guerra, stavano sviluppando sin da giovani un attivismo sociale e culturale comunque legato alla crisi nazionale e, dunque, politico. Varie fonti storiche sottolineano che sono, di fatto, queste pioniere, e soprattutto le già citate più politicizzate leader famose dell’associazione femminile di Gerusalemme, le vere ispiratrici del futuro femminismo panarabo che nascerà proprio per la difesa della Palestina.

 [14] Salim Tamari, “Adele Azar: Public Charity and Early Feminism”, Jerusalem Quarterly, 74, 2018.

*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba(Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).






L’articolo STORIA. Il femminismo panarabo e l’identità palestinese (quarta parte) proviene da Pagine Esteri.