Descrizione
Basterebbero quei ripetuti “Amin Gesus” a connotare questo libro come una summa dell’identità di un luogo che chiaramente ha stregato l’autore. Non perché sia prevalente l’aspetto mistico, ma solo perché anche la religione è avvertita come vita collettiva, fa paese, credenti e atei uniti nella tradizione.
Il luogo è Perdasdefogu, villaggio più montano che collinare nel cuore della Sardegna. Un luogo – con tzia Amalia e tzia Enoria, con Santu Serbestianu e tziu Antoni Peis trottusu – dimenticato da quasi tutti i viaggiatori che hanno raccontato l’isola dal Settecento in poi. Perdasdefogu, anzi Foghesu, non ha avuto il piacere e l’onore di vedere tra le sue forre e le sue profondissime vallate né Elio Vittorini né Carlo Levi, non ci sono passati né Padre Gemelli né Padre Bresciani, non ci sono arrivati Valery, Tyndale, Jourdan, Tennant, Delessert, neanche Lawrence, neanche Maurice Le Lannou che pure avrebbe trovato pastori e contadini degni di interesse e di racconto anche tra Monte Rasu e Bruncu Santoru. Un luogo dove si è avventurato (ma poco o nulla sappiamo del suo soggiorno) soltanto il generale piemontese Carlo Alberto Della Marmora arrivato – a metà dell’Ottocento – alle miniere di antracite (lato Flumineddu-Rio Su Luda) e al trapezio di Monte Cardiga dove per primo aveva individuato i nummuliti. C’era stato un altro grande del passato, Max Leopold Wagner a fotografare, nel 1923, una vecchietta che filava la lana e che campeggia in un libro col reportage del grande studioso tedesco. La donna di Foghesu, sembra una litografia di Giovanni Dotzo o di Carmelo Floris, (nel catalogo è al numero 5065) ha in mano il fuso (su vùzu) e la conocchia (sa grannùga). Poi nessun altro forestiero, se si eccettuano tre donne-coraggio (Joyce Salvadori Lussu moglie del Cavaliere dei Rossomori Emilio, Elena Croce la figlia di Benedetto, Cinzia Thermes architetto di Cagliari) ad arrivarci a cavallo, da sole da Armungia, senza vigilantes, senza scorta virile, nei primi anni del Cinquanta. Poi, con la nascita del Poligono Interforze del salto di Quirra, l’isolamento aveva avuto fine. Ma è un’altra storia.
Questo libro – se si escludono quelli più recenti che hanno usato il nome di Perdasdefogu per infangarlo su disgrazie più inventate che vere – è quasi certamente il primo scritto da un “continentale” che ha interpretato acutamente i tratti singolari di un paese che, essendo stato a lungo isolatissimo, ha conservato intatti alcuni costumi che gli conferiscono una identità marcata, degna di maggiore attenzione. Trovate cinque racconti – Sa coga, Sìada frisca s’anima tua, Launeddas, Abba ‘e fonti e Sa giura – dai quali emerge un ritorno non nostalgico ma consapevole di usanze che arricchirebbero qualunque testo di antropologia. Racconti che non sono né biografie, né autobiografie, né agiografie ma la narrazione corale di una comunità, con i luoghi che si identificano con le persone, con le leggende di secoli intersecate alla cronaca, con pagine che potrebbero essere anche di questi anni duemila ma che poi ben si riallacciano alle “laceranti urla di tormento che si levarono dal camposanto riecheggiando per tutta la vallata di Thuerj”. Una vallata, quest’ultima, dove pare fosse ubicato il Pantheon dei prenuragici e dei nuragici e che solo adesso, dopo quasi un secolo dalla scoperta di importanti reperti ossei, stanno studiando antropologi, anatomo-patologi, paleontologi, archeologi, demografi e genetisti.
Un libro che fa piacere leggere perché scritto con semplicità, pari a quella dei protagonisti: Bonaria che non si era mai sposata, quelli che pregano cantando, Gigina Cabitza e Alarico, il mistero di una donna a Mandaressi, la cella numero 27, Lisandru e Nerino che si erano conosciuti tra le mura della prigione di Fornelli all’isola dell’Asinara, un bacio rubato alla fontana scomparsa di Palasineddu, Pietro Terre che selezionava gli armenti, il valore della parola data perché “io, Battistino Mesa di Geru, giuro d’aver detto il vero”, con Larentu Marras e Antiocu che attendono gli sviluppi di una congiura “dall’alto del cavallo”.
Non è solo un tuffo nel passato. Non è un amarcord che vuol catturare il lettore. Queste pagine sono la trascrizione orale dei tanti racconti che mai sono stati approfonditi ma che sono il tratto saliente di quanto oggi è non solo Perdasdefogu ma ogni villaggio, di ogni parte del mondo.
Le favole, le leggende, “is contus” che corrono di bocca in bocca tra i rioni di Foghesu, sono gli stessi di Nùoro e di Sassari, di Pesaro e di Caserta, della Provenza e della Scozia, dei villaggi del Madagascar e dell’Alaska. Ogni dettaglio da dietro di sé una storia, tante storie vere o verosimili, e restituiscono geografie, antropologie, sociologie, aspetti religiosi, arricchiti di nuove consapevolezze. C’è tanta memoria collettiva che potrebbe funzionare da stesura, da traccia, da menabò per tanti altri romanzi autonomi, con una strategia narrativa che diventerebbe coinvolgente se avesse quella carica morale, etica ed etnica che Nando Cimino possiede a tutto tondo. Di questo libro cattura la semplicità che è poi la realtà, quella che descrive meglio di qualunque fantasticheria le vicende dell’uomo.
“Amin Gesus”. Bisogna sentirle le note finali di questo canto che è tanto religioso quanto laico. Bisogna sentirlo il canto del rosario in limba. Bisogna sentirli gli spari per l’Incontro, anche s’attoppu. Bisogna vedere la delicatezza con la quale si racconta un rito scomparso, quello della mamma che torna in chiesa, che riappare in pubblico quaranta giorni dopo il parto. È quasi un invito appassionato a non cancellare la memoria, a non radere al suolo le tradizioni, a conservare quanto secoli, millenni hanno fatto sedimentare nel paese. Parliamo dell’efficacia delle erbe officinali? Del rito del pane dolce? Della coreografia delle processioni in campagna con i panni colorati fra i lecci e gli orti? Parliamo del valore che hanno a Perdasdefogu i beni, i saperi immateriali?
Un libro, certo, atto letterario d’amore per Foghesu, per tutti i personaggi di ieri che sono personaggi anche oggi, semmai con nomi e cognomi diversi. Per testimoniare che le radici e l’identità vanno salvaguardate: prima capite, amate religiosamente, profondamente, de su coru, fra le mura di casa. E poi trasmesse al mondo. Perché le tradizioni, anche quelle orali, sono patrimonio dell’umanità. Amin Gesus”.
Dalla Prefazione
Giacomo Mameli
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