di Alessandra Mincone –
Pagine Esteri, 7 marzo 2024. Il 20 Febbraio 2024 i membri del gruppo libico Petroleum Facilities Guard (PFG) hanno bloccato i flussi di gas in un complesso facente capo alla “Mellitah Oil & Gas” nella città di Al-Zawiya. Qui la raffineria, gestita dalla compagnia Azawia, esporta le eccedenze utili al fabbisogno locale del petrolio greggio attraverso il porto petrolifero e grazie al “Greenstream”, il gasdotto più lungo del mediterraneo e il più importante dell’Africa.
Il Greenstream collega i porti libici con l’isola di Sicilia, in Italia. Agli inizi del 2023, alla presenza del Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, la società Eni, che detiene l’80% della produzione libica di gas della compagnia Mellitah Oil & Gas, ha siglato un accordo con il governo di unità nazionale libico per un finanziamento di otto miliardi di dollari, con l’obiettivo di accrescere i volumi di esportazione in tutta Europa. In una nota stampa, l’Amministratore delegato Claudio Descalzi aveva annunciato che “la produzione combinata di gas dalle due strutture sovvenzionate inizierà nel 2026 e raggiungerà un plateau di 750 milioni di piedi cubi di gas standard al giorno”.
Il gasdotto Greenstream è una parte del sistema di trasporto del gas libico controllato da Eni e inaugurato da Silvio Berlusconi e Muhammar Gheddafi nel 2004. È grazie a questa infrastruttura per il trasporto del gas se nell’ultimo ventennio le importazioni italiane dalla Libia sono accresciute di oltre il 10%, e se la Libia rappresenta, ad oggi, il quarto fornitore di gas per l’Italia.
Gli operatori del Petroleum Facilities Guard hanno causato il blocco dei flussi di gas come forma di protesta per le condizioni di lavoro. Tra le rivendicazioni più importanti, l’aumento del 67% degli stipendi, il pagamento dell’assicurazione sanitaria, il risarcimento di mensilità arretrate e l’adeguamento di premi economici in linea con i dipendenti della National Oil Corporation.
Il PFG ha prima concesso al governo di unità nazionale una decina di giorni per siglare un accordo. Poi, allo scadere dell’ultimatum del 15 Febbraio, la milizia impiegata nella sicurezza delle aree di giacimenti ha annunciato un rallentamento delle attività a partire dalla chiusura della raffineria di Al-Zawiya, fino al blocco graduale di tutti gli impianti petroliferi di Metillah e Misurata, in assenza di una convocazione da parte del Governo. In un video diffuso dalle guardie libiche all’inizio dello sciopero, hanno spiegato che “i dipendenti hanno sofferto di emarginazione ed esclusione e lavorato in condizioni difficili, ma si rifiuteranno di essere trasferiti presso altri servizi di sicurezza fino a che i funzionari e le istituzioni non consentiranno di accordare a tutti i membri i pieni diritti legali”.
Solo tra il 25 e il 26 Febbraio, il PFG ha dichiarato la riapertura dei siti oggetto della protesta, a seguito di un incontro riservato a Tripoli con il Primo Ministro, Abdul Hamid Dbeibah, che avrebbe concesso delle migliorie contrattuali. Nelle stesse ore si è svolto anche un incontro tra il capo della guardia degli impianti petroliferi, Abdul Razzaq Al-Khurmani, e il Presidente del Consiglio di Amministrazione della National Oil Corporation, Masoud Suleiman, che aveva spinto fin da subito la discussione verso una strada diplomatica per “lasciare gli impianti lontani dalle tensioni”.
L’economia petrolifera e di gas rappresentano il 97% delle entrate totali del governo, mentre le esportazioni verso l’Italia sono arenate dal 2022, anche a causa di una tendenza generale alla riduzione del consumo del gas tra le più drastiche degli ultimi venticinque anni. Eppure, l’Italia continua ad attestarsi tra le maggiori partner commerciali della Libia soprattutto grazie all’influenza di Eni. Secondo le stime dell’Agenzia americana per l’energia, nel 2021 la Libia deteneva quarantotto miliardi di barili di petrolio e quasi due miliardi di metri cubi di riserve di gas; si tratta di un possedimento pari al 3% delle riserve di petrolio globali oltre a possedere la quinta riserva di metano più importante dell’Africa.
Ma a dimostrazione dell’instabilità della nazione che si riversa sulla partita del petrolio è stata la protesta che ha preceduto quella di Febbraio, iniziata con il blocco della produzione nel giacimento petrolifero di Al-Sharara il 7 Gennaio. In quell’occasione i manifestanti del movimento “No Corruption” hanno fatto richiesta di immediate forniture di carburanti e derivati, la stipula di un progetto di raffineria nel sud della Libia, la creazione di posti di lavoro per laureati locali, un incentivo statale presso un Fondo per la ricostruzione della regione del Fezzan e la costruzione di un ospedale pubblico nella città di Ubari. Il blocco di uno dei giacimenti più rilevanti della Libia non ha lasciato al Governo altra scelta che svincolarsi dagli obblighi contrattuali sulle esportazioni dichiarando “lo stato di forza maggiore”, determinato da situazioni involontarie, e rischiare un collasso economico poiché l’inattività del giacimento di Al-Sharara ha compromesso le forniture di petrolio fino al terminal di Al-Zawiya.
Le radici delle mobilitazioni di Gennaio sono da ricercare anche nell’opposizione popolare e, talvolta, guidata dal generale Haftar, verso il colosso Eni per lo sviluppo di giacimenti come quello di Hamada, operazione fortemente criticata in quanto a detta dei manifestanti “non rispecchierebbe le leggi libiche”. Alle contestazioni, Dbeibah ha risposto che tra gli obbiettivi e i diritti dello Stato libico, resta l’intenzione di “aumentare la produzione di petrolio e gas e sviluppare nuove scoperte, anche con investimenti esteri”. Insomma, non è complicato predire che i giacimenti di petrolio e gas libici continueranno ad essere a lungo il teatro di interessi politici tra Libia e Italia, come di nuove proteste.
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