Di Meron Rapoport – +972 Local Call
(traduzione di Federica Riccardi, foto fermo immagine da You Tube)
A prima vista, è difficile dare un senso alla spaccatura all’interno del Governo israeliano sul “day after” a Gaza, che ha portato Benny Gantz a lasciare la coalizione domenica. In una conferenza stampa in cui ha annunciato la sua decisione, Gantz ha accusato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “impedire… una vera vittoria” non presentando un piano praticabile per la governance della Striscia dopo la guerra.
Gantz, che si è unito al governo e al gabinetto di guerra dopo il 7 ottobre come ministro senza portafoglio, ha sollecitato Netanyahu per mesi a presentare il suo piano per il “giorno dopo”. Il primo ministro, che ha un interesse personale e politico a prolungare la guerra, si è finora rifiutato di presentarne uno; al contrario, ha solo insistito ripetutamente sul fatto che rifiuta sia il mantenimento di un “Hamastan” sia la sua sostituzione con un “Fatahstan” gestito dall’Autorità Palestinese (AP).
Tuttavia, nemmeno Gantz ha un piano praticabile. La sua proposta – sostituire Hamas con un “meccanismo di governance civile internazionale” che includa alcuni elementi palestinesi, pur mantenendo Israele il controllo generale della sicurezza – è così inverosimile che il suo significato pratico è quello di continuare la guerra indefinitamente. In altre parole, esattamente ciò che Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra vogliono.
Lo stesso si può dire del ministro della Difesa Yoav Gallant, che era il più stretto alleato di Gantz nel gabinetto di guerra. Gallant avrebbe abbandonato una riunione del gabinetto di sicurezza il mese scorso quando gli altri ministri lo hanno fustigato per aver chiesto a Netanyahu di escludere un controllo civile o militare prolungato su Gaza. Ma la proposta alternativa del ministro della Difesa è essenzialmente la stessa di Gantz: istituire un governo gestito da “entità palestinesi” non appartenenti a Hamas con il sostegno internazionale – cosa che nessun attore palestinese, arabo o internazionale accetterebbe.
È vero che Gantz e Gallant hanno anche chiesto a Netanyahu di dare priorità a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, mentre il primo ministro la sta tirando per le lunghe. Ma anche questo apparente disaccordo crolla davanti a un esame più attento: qualsiasi accordo comporterebbe un ritiro significativo, se non completo, di Israele da Gaza e un cessate il fuoco lungo mesi, se non permanente. Uno scenario del genere si tradurrebbe in una delle due possibilità: il ritorno al dominio di Hamas o la reintroduzione dell’Autorità Palestinese, entrambe inaccettabili per Gantz e Gallant da un lato, e per Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra dall’altro.
Allora perché la destra israeliana vede le proposte fondamentalmente incoerenti di Gantz e Gallant come una minaccia esistenziale? La risposta va ben oltre il disaccordo sulla questione del “giorno dopo” di Gaza. Ciò che Gantz e Gallant implicitamente riconoscono, e che Netanyahu e i suoi alleati si rifiutano di ammettere, è che la pluridecennale “politica di separazione” di Israele è crollata in seguito agli attacchi del 7 ottobre. Non potendo più mantenere l’illusione che la Striscia di Gaza sia stata separata dalla Cisgiordania e quindi da qualsiasi futura soluzione politica per la questione palestinese, i leader israeliani sono in difficoltà.
Dalla separazione all’annessione
La politica di separazione di Israele può essere fatta risalire ai primi anni ’90, quando, sullo sfondo della Prima Intifada e della Guerra del Golfo, il governo iniziò a imporre ai palestinesi un regime di permessi che limitava gli spostamenti tra la Cisgiordania e Gaza. Tali restrizioni si sono intensificate durante la Seconda Intifada e sono culminate all’indomani del “disimpegno” di Israele da Gaza nel 2005 e della successiva ascesa al potere di Hamas.
La maggior parte degli israeliani pensava che Israele avesse lasciato Gaza e quindi non avesse più alcuna responsabilità per quanto accadeva nella Striscia. La comunità internazionale ha respinto in larga misura questa posizione e ha continuato a considerare Israele come una potenza occupante a Gaza, ma il governo israeliano si è sempre sottratto alle proprie responsabilità nei confronti dei residenti dell’enclave. Al massimo, il governo era disposto a concedere ai palestinesi permessi di viaggio per entrare in Cisgiordania o in Israele per motivi umanitari specifici.
Quando Netanyahu è tornato al governo nel 2009, ha lavorato per consolidare la politica di separazione. Ha ampliato la frattura tra Gaza e la Cisgiordania incanalando fondi al governo di Hamas nella Striscia, basandosi sulla convinzione che dividere i palestinesi geograficamente e politicamente avrebbe limitato la possibilità di uno Stato palestinese indipendente.
Questo, a sua volta, avrebbe spianato la strada a Israele per annettere parte o addirittura tutta la Cisgiordania. Quando nel 2021 è stato chiesto a Yoram Ettinger, “esperto” di demografia della destra israeliana, come avrebbe affrontato il fatto che tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo c’è all’incirca lo stesso numero di ebrei e palestinesi, ha spiegato che “Gaza non è in gioco e non è rilevante… L’area contesa è la Giudea e la Samaria”.
David Friedman, l’ambasciatore statunitense favorevole all’annessione nominato da Donald Trump, ha convenuto che dopo il ritiro da Gaza, solo la questione della Cisgiordania è rimasta pertinente. “L’evacuazione [degli israeliani] da Gaza ha avuto un effetto salutare: ha tolto 2 milioni di arabi dall’equazione demografica”, ha dichiarato nel 2016. Eliminando Gaza dalla discussione, ha spiegato l’ex ambasciatore, Israele potrebbe mantenere una maggioranza ebraica anche se annettesse la Cisgiordania e concedesse la cittadinanza ai suoi residenti palestinesi.
Un vuoto di potere strategico
Una delle ragioni dichiarate da Hamas per l’attacco del 7 ottobre era quella di infrangere l’illusione che Gaza fosse un’entità separata e di riportare la Striscia e l’intera causa palestinese alla storia. In questo ha senza dubbio avuto successo.
Tuttavia, anche dopo il 7 ottobre, Israele ha continuato in larga misura a ignorare il legame tra Gaza e la Cisgiordania, nonché la sua centralità nella lotta palestinese nel suo complesso. Israele si è sempre rifiutato di articolare un piano coerente per il “giorno dopo” perché per farlo deve necessariamente affrontare lo status della Striscia nel più ampio contesto israelo-palestinese. Qualsiasi discussione di questo tipo mina fondamentalmente la politica di separazione accuratamente coltivata da Israele.
Oltre alla sua totale brutalità, l’attuale assalto di Israele a Gaza si differenzia in modo importante dalle guerre precedenti. Mai prima d’ora Israele aveva permesso che un territorio sotto il suo controllo militare rimanesse sostanzialmente ingovernato. Quando l’esercito israeliano occupò per la prima volta la Cisgiordania e Gaza nel 1967, istituì immediatamente un governo militare che si assunse la responsabilità dell’amministrazione civile delle vite dei residenti occupati. Quando ha occupato il Libano meridionale nel 1982, non ha smantellato il governo libanese esistente; dopo aver istituito una “zona di sicurezza” nel 1985, Israele ha affidato la responsabilità degli affari civili a una milizia locale.
Ciò è in netto contrasto con l’attuale operazione. Nonostante il controllo effettivo di ampie zone di Gaza, Israele tratta i 2,3 milioni di abitanti di Gaza come se vivessero in un vacuum.
Per ovvie ragioni, Israele considera illegittimo il governo di Hamas che ha controllato la Striscia per 16 anni, ma non considera l’AP, che amministra parti della Cisgiordania, un’alternativa adeguata. Uno scenario del genere minerebbe completamente la politica di separazione di Israele: la stessa entità palestinese governerebbe entrambi i territori occupati e Israele si troverebbe ad affrontare maggiori pressioni per negoziare la creazione di uno Stato palestinese.
Finché esisterà il vuoto di potere a Gaza, la destra potrà ottenere ciò che vuole: la guerra potrà continuare, Netanyahu potrà prolungare la sua permanenza in carica e non ci sarà alcuna possibilità reale di aprire i negoziati di pace, che anche gli americani sembrano ora desiderosi di riavviare. La destra messianico-nazionalista vuole mantenere questo limbo anche perché apre la porta alla possibilità della cosiddetta “migrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza, che è il desiderio ultimo del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, o all’“annientamento totale” dei centri abitati di Gaza, che è l’obiettivo del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Entrambi ritengono che gli insediamenti israeliani dai tetti rossi si trovino all’altra estremità di questo periodo di limbo.
Due visioni per Gaza
L’esercito, tuttavia, sembra stanco di questo vuoto. Per loro, promette solo combattimenti senza fine e senza obiettivi raggiungibili, l’esaurimento dei soldati e dei riservisti e un crescente confronto con gli americani, con i quali l’establishment della difesa israeliana ha un rapporto particolarmente stretto. L’invasione di Rafah non ha fatto altro che aumentare il malcontento dell’esercito.
L’acquisizione da parte di Israele del valico di Rafah con l’Egitto ha ulteriormente minato l’idea che Israele non abbia alcuna responsabilità per ciò che accade a Gaza. Gallant ha correttamente riconosciuto che il controllo del valico di Rafah e del corridoio Filadelfia ha avvicinato Israele all’istituzione di un governo militare nella Striscia: senza volerlo, e certamente senza ammetterlo, Israele sembra sul punto di governare Gaza come governa la Cisgiordania.
Gantz e Gallant hanno reagito a questa situazione in modo simile. Entrambi sono in stretto contatto con gli Stati Uniti e sono anche più esposti alle pressioni delle famiglie degli ostaggi, il cui sostegno continua a crescere nell’opinione pubblica israeliana. Entrambi capiscono bene che il continuo rifiuto di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich di discutere del “day after” impedisce qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo per il rilascio degli ostaggi e li condanna a una morte lenta e certa nei tunnel di Hamas.
Le proposte di Gallant e Gantz per un governo palestinese non sono serie e non possono essere accettate da nessun organismo palestinese, arabo o internazionale che si rispetti. Ma sono sufficienti a sfidare le preferenze di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir per un limbo eterno, a provocare la loro empia rabbia e a minare la stabilità del governo.
Le dichiarazioni di Gantz e Gallant esprimono anche un’ammissione inconscia del fatto che Israele si trova attualmente di fronte a due sole possibilità reali. La prima è un accordo che riconosca Gaza come parte integrante di un’entità politica palestinese, il che comporterebbe il ritorno dell’AP e l’istituzione di un governo palestinese unito. L’alternativa è una guerra di logoramento, che la destra messianica spera si concluda con l’espulsione o l’annientamento dei palestinesi, ma che più probabilmente si concluderà come la Prima guerra del Libano: un ritiro di Israele sotto una pressione militare sostenuta e il radicamento di un’abile guerriglia al confine di Israele.
L’articolo Cosa rivela l’uscita di Benny Gantz sulla strategia fallimentare di Israele a Gaza proviene da Pagine Esteri.